Al Washington Hilton, la Cena dei Corrispondenti della Casa Bianca (White House Correspondents’ Association) è sembrata più una veglia che una festa. Nessuna pioggia di battute, nessuna stretta di mano con il presidente, nessun siparietto tra celebrità. Soltanto il giornalismo, messo sotto accusa e sotto pressione, a cercare di difendere se stesso.
In questa edizione i protagonisti sono rimasti i giornalisti e il Primo Emendamento, il pilastro costituzionale che garantisce la libertà di parola e di stampa negli Stati Uniti. Trump aveva già fatto sapere che non avrebbe partecipato. Non lo aveva mai fatto nel suo primo mandato e non avrebbe cominciato ora, nel pieno del suo secondo. Questa volta, il presidente aveva un alibi spendibile: si trovava a Roma, in visita ufficiale, per i funerali di Papa Francesco. Un’assenza ufficiale ma politicamente pesante. Nemmeno la nuova portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha ritenuto opportuno presentarsi. Ventisette anni, fedele al movimento Maga, Leavitt ha già imposto un tono durissimo nei confronti della stampa, accusandola apertamente di essere un’estensione dell’opposizione politica.
Il presidente del WHCA, Eugene Daniels, ha voluto subito chiarire il senso della serata: “Non siamo l’opposizione. Non siamo nemici dello Stato. In un momento cruciale per il giornalismo, voglio assicurarmi che l’attenzione non sia risucchiata dalla politica della divisione, ma resti saldamente ancorata a ciò che conta davvero: premiare l’eccellenza dei nostri colleghi e sostenere, con borse di studio e mentorship, la prossima generazione di giornalisti”.
Alex Thompson di Axios ha ricevuto il massimo riconoscimento per aver raccontato senza censure il declino politico e fisico di Joe Biden. Rachel Scott di ABC News è stata premiata per la sua copertura del tentato attentato contro Trump. Doug Mills del New York Times ha saputo cogliere, in un’immagine potente, la vulnerabilità di Biden sotto lo sguardo austero di Lincoln. Reuters ha ottenuto il premio per la sua inchiesta sul traffico di fentanyl, l’Associated Press per aver svelato il sistema di sfruttamento del lavoro carcerario, e Anthony Zurcher della BBC per il suo racconto crudo e preciso della guerra di Gaza.
Come se non bastasse, la serata aveva già perso un altro pezzo della sua identità quando l’organizzazione aveva deciso di cancellare l’intervento della comica Amber Ruffin, silurata dopo aver criticato l’amministrazione in un podcast. Anche il tappeto rosso rifletteva la nuova realtà. Le star di un tempo – Scarlett Johansson, Kim Kardashian, John Legend, Rosario Dawson – erano sparite. A salvare le apparenze sono rimasti Jason Isaacs, Dean Norris, Tim Daly, Lynda Carter, Alex Borstein e Kevin O’Leary, poche presenze in un salone più sobrio, più teso.
Sui maxischermi scorrevano le immagini di Ronald Reagan, Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Joe Biden: presidenti che, pur tra le critiche, avevano riconosciuto il valore del giornalismo come parte vitale della democrazia. Sabato sera, la stampa si è aggrappata all’unica cosa che ancora può rivendicare: la dignità del racconto vero.