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Netanyahu rimanda l’assalto a Rafah. Per ora

Intanto la situazione drammatica della popolazione palestinese di Gaza ha superato ogni precedente massacro dei nostri tempi

Eric SalernobyEric Salerno

Internally displaced Palestinians hold empty bowls as they line up to receive food aid provided by a Palestinian youth group in the Rafah refugee camp, southern Gaza Strip, 07 March 2024 ANSA/EPA/HAITHAM IMAD

Time: 4 mins read

Due popoli, due territori, due paesi, due religioni, due settori, due mondi, due olocausti, due modi di guardare la storia, due di tutto. Si potrebbe cominciare con un vecchio detto ebraico: due ebrei, tre opinioni ma torniamo al mondo di oggi. Ci sono due possibilità per le prossime mosse previste dal governo israeliano per Gaza, dopo le dure parole e gli ammonimenti pubblici e privati del presidente americano. Netanyahu e i suoi ministri sembrano aver deciso di fare un passo indietro. Esponenti del suo governo di estrema destra, militari e uomini del Mossad fanno sapere che per ora dell’assalto finale alla città di Rafah, ai tunnel nascosti sotto le case e i campi profughi sorti dopo i bombardamenti israeliani della striscia, non se ne parla. Per quanto tempo? Nessuno sa o vuole rispondere.

Da ottobre la Casa bianca appoggia la vendetta israeliana per l’orribile attacco di Hamas alla popolazione civile nel Negev ma di fronte ai morti palestinesi (oltre trenta mila tra bambini, donne e uomini) Biden ha deciso di fissare una linea rossa: Rafah, per ora, non si tocca. La situazione drammatica della popolazione palestinese di Gaza ha superato ogni precedente massacro dei tempi nostri. Si possono fare paragoni con l’ex Jugoslavia ma mai come oggi le immagini della devastazione, delle bare, degli aiuti umanitari bloccati alle frontiere dalle truppe d’occupazione, sono arrivate nelle case americane ed europei in tempi reali. Commenti, paragoni, rabbia e tristezza sono ovunque. E’ sufficiente pensare all’altro giorno quando un film sull’Olocausto degli ebrei ha vinto un Oscar e il suo autore ha chiesto al mondo di guardare alle spiagge di Gaza e a quello che sta succedendo.  E riflettere. Mai più era la parola d’ordine uscito dal passato che doveva rappresentare il mondo di oggi, del futuro. Biden poteva fissare la sua linea rossa mesi prima; il segnale che una netta spaccatura tra lui e il premier israeliano era arrivato giorni prima per bocca del suo numero due.

“E’ importante distinguere tra il popolo d’Israele e il governo d’Israele”, ha esortato con giusta enfasi Kamala Harris. E vorrei aggiungere che è fondamentale distinguere tra quel popolo, quel governo e gli ebrei della diaspora. Nel 2023, la popolazione ebraica mondiale (coloro che si identificano come ebrei sopratutto) era stimata in 15,7 milioni. Israele ne ospita un po’ meno della metà, 7,2 milioni. Negli Stati Uniti gli ebrei sono 6,3 milioni. Tutte cifre quasi insignificanti rispetto agli otto miliardi della popolazione mondiale. Durante l’Olocausto furono assassinati circa due terzi degli ebrei europei e circa un terzo della popolazione ebraica mondiale. In Italia, per fare un paragone, il numero degli ebrei oscilla intorno ai trentamila discendenti o sopravvissuti a quelli finiti nei campi o nei forni del genocidio nazi-fascista.

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu attends the voting session for the impeachment of Hadash-Ta’al party MP Ofer Cassif in Jerusalem, 19 February 2024 ANSA/EPA/ABIR SULTAN

“Hitler, Mussolini – due assassini –  non avrebbero avuto dubbi: potevi finire anche tu nelle camere a gas. E se dovesse arrivare un altro come loro…”. L’uomo del Mossad era di quelli vecchio stampo. Duro, secco, non sapeva scherzare e quasi venti anni da quell’incontro era ancora lo stesso, ex paracadutista che mi venne a prendere agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso nel mio albergo a Gerusalemme per farmi “vedere e apprezzare”, disse, il suo paese. Per anni avevo girato Africa e mondo arabo. Ero già stato in Israele. Varie volte avevo raccontato per il mio giornale quello che vedevo e che mi sembrava di capire del paese e del conflitto con i palestinesi. Questa doveva essere una specie di lezione di parte. L’ambasciata israeliana a Roma aveva contattato il direttore de “Il Messaggero” perché accettassimo una visita guidata, spese a carico nostro come vuole la deontologia statunitense.

La mia guida pensava che Salerno fosse un cognome ebraico. Gli dovette spiegare che la regola dei nomi di città uguale origini ebraiche riguardava soltanto una parte di popolazione italiana.  Mio padre veniva da una famiglia cattolica calabrese. Nei forni hitleriani, ammisi, però, sarei potuto finire se invece di nascere a New York fossi nato nell’Italia di Mussolini: mamma, infatti, era un’ebrea russa. Il mio fascicolo nell’ambasciata israeliana a Roma, gli spiegai, andava corretto.

Prima di partire quelli dell’ufficio stampa mi avevano chiesto di prenotare una struttura moderna nel cuore di Gerusalemme Ovest, la parte ebraica anche se la maggioranza dei giornalisti italiani frequentavano l’American Colony, a Gerusalemme Est. Le due parti divise della città santa, allora, erano ancora molto divise. “Un covo di palestinesi, uomini di Arafat”,  mi fu spiegato. E così arrivai un venerdì sera in albergo e fui bloccato nell’atrio da un portiere in livrea che gridava “shabbat, shabbat, il sigaro, no, no!”.

A billboard with a Palestinian flag stands next to damaged buildings after Israeli air strikes on Tel al-Hawa neighborhood, in Gaza City, 30 October 2023. ANSA/EPA/MOHAMMED SABER

Dalle mie labbra pendeva un toscano ma anche se era spento poteva dare fastidio, spiegò, mentre mi accompagnava all’ascensore che impiegò una decina di minuti per salire all’ultimo piano. Avrebbe impiegato lo stesso tempo, più a meno per scendere. Andava su e giù in automatico per rispettare la regola che impedisce agli ebrei religiosi di azionare meccanismi – come accedere la luce o il fuoco – dal tramonto del venerdì all’apparizione della prima stella del giorno successivo. Poco più tardi avrei scoperto che per mangiare qualcosa di caldo dovevo attraversare la città e andare nella zona palestinese. La domenica mattina saremo andati a nord, attraverso i territori occupati, passando alla periferia di Ramallah e non distante dall’insediamento dove qualche anno prima avevo intervistato la portavoce della colonia per sentirmi dire che “noi ebrei abbiamo già rinunciato a molto delle nostre terre…come Damasco, come Bagdad come…”.

Fu quando ci stavamo avvicinando al confine con il Libano che il mio cicerone si fermò ai margini della strada e con un gesto teatrale tirò fuori da sotto il sedile la sua pistola, mise un colpo in canna, e disse che “ogni tanto gli uomini di Arafat attaccavano le vetture di passaggio”. Un giorno, disse alla fine del mio tour esclusivo, ci sarà pace. Allora in Cisgiordania gli insediamenti erano pochi e abitati in gran parte da americani messianici con doppio passaporto. Oggi sono tanti, vere città, con una popolazione di oltre mezzo milione di israeliani trascinati dalla fede o dal costo relativamente basso degli alloggi.

Tanti anni dopo quella lezione, la mia guida era salito di rango e mi spiegava che Ariel Sharon, generale cattivo, responsabile della strage di Sabra e Chatilla in Libano, divenuto primo ministro, aveva deciso di chiudere le colonie israeliane nella striscia di Gaza e di ritirare tutte le truppe d’occupazione. “E’ solo un primo passo” fece capire Sharon, uomo di destra che guidava Israele. Poco dopo un ictus bloccò lui e il suo progetto di chiudere due insediamenti in Cisgiordania e di trovare il modo – due stati per due popoli – per far convivere in pace israeliani e palestinesi.

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Eric Salerno

Eric Salerno

Giornalista ed esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente de 'Il Messaggero' da Gerusalemme per quasi trent'anni.

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