Le accuse sono tante e pesanti, ma le prove a sostegno delle accuse non vengono fuori. Almeno per ora. C‘è tanto fumo creato da queste insinuazioni e, soprattutto è difficile capire da che parte sia la verità anche perché in politica tutto viene strumentalizzato.
Per colpire la presidenza di Joe Biden il bersaglio che i repubblicani hanno messo nel loro mirino è semplice: lo scapestrato figlio del presidente degli Stati Uniti, Hunter Biden. Un uomo che sin dall’infanzia, ferito nell’incidente in cui morirono la madre e la sorella, ha avuto problemi di tossicodipendenza.
Dentro e fuori i centri di recupero, una laurea in legge, una love story con la moglie del fratello mentre era sposato, un figlio con una sua ex assistente, manager di improbabili hedge funds, una società di consulenze e tanti posti nei consigli di amministrazione, ma mai un lavoro “fisso”. Tra le sue consulenze anche quella alla Burisma, società energetica ucraina. Ultimamente s’era messo a fare il pittore, vendendo i suoi quadri per centinaia di migliaia di dollari. Un’attività che portò la Casa Bianca a varare delle regole etiche per evitare di essere accusata di favorire i lobbysti che acquistavano i suoi quadri.

Le consulenze di Hunter Biden con la società energetica ucraina sono state più volte denunciate da Donald Trump quando era alla Casa Bianca il quale sguinzagliò l’allora suo avvocato Rudy Giuliani per scoprire il marcio su Hunter. Giuliani andò numerose volte a Kiev alla ricerca di indizi, testimoni, prove per dimostrare all’opinione pubblica americana che Hunter Biden era corrotto. In Ucraina incontrò l’allora ministro della Giustizia, il procuratore generale, i massimi organi della polizia investigativa.
Contatti fatti usando il nome del capo della Casa Bianca all’ombra della diplomazia ufficiale che mandarono su tutte le furie l’allora ambasciatrice americana a Kiev, Marie Yovanovitch, che protestò con il Dipartimento di Stato. Venne immediatamente licenziata da Trump. La diplomatica nella sua deposizione resa poi al Congresso durante il primo impeachment di Trump affermò di essere stata vittima di una campagna di diffamazione messa in atto da Rudy Giuliani e da alcuni funzionari ucraini e che Rudy Giuliani li stava contattando spingendoli a trovare le prove per coinvolgere Hunter Biden.
Pochi mesi dopo, quasi alla vigilia delle elezioni, saltò fuori il computer di Hunter Biden abbandonato dal figlio del presidente in un negozio per essere riparato e “casualmente” trovato da Rudy Giuliani. Inizialmente la storia del laptop non venne presa in considerazione dai media che la relegarono come una bufala propagata dai russi pochi giorni prima delle elezioni. Ma un anno dopo, quando foto e messaggi dimostrarono che il computer era effettivamente di Hunter perché nell’hard drive, oltre alle foto di lui e delle sue amiche in costumi adamitici strafatti di droga, c’erano anche una serie di email per i suoi affari con soci e società stranieri, ci fu la conferma che il computer era suo.

Tra le tante email anche una mandata a Tony Bobulinski, ex lottatore di wrestling e ex ufficiale di Marina che è stato Ceo di una joint-venture creata da Hunter Biden insieme ad un imprenditore cinese nel settore dell’energia. Una email in particolare ha messo in allarme l’Fbi. Nella lettera viene ricapitolata la divisione delle quote di capitale in una joint venture tra lo stesso Bobulinski, Hunter e Joe Biden e altri due soci. La ripartizione prevedeva il 20% per quattro e il 10% per quello che è stato definito “pesce grosso” e che Bobulinski identifica come Joe Biden. Su questa lettera, però ci sono molti interrogativi. Secondo alcuni sarebbe una lettera falsa abilmente contraffatta dallo spionaggio russo.
Da allora sono passati tre anni. A gennaio, dopo che i repubblicani hanno conquistato la maggioranza alla Camera e le commissioni parlamentari sono presiedute dai repubblicani, la vicenda è stata rispolverata da due fedelissimi dell’ex presidente Donald Trump. Il presidente del comitato di supervisione della Camera, il congressman repubblicano James Comer, e il novantenne senatore repubblicano Chuck Grassley, hanno riaperto l’inchiesta parlamentare su Joe Biden e sul figlio. Dicono di avere le prove che entrambi sono corrotti e che il Dipartimento della Giustizia, corrotto anche lui, non indaga. Né indagano i corrotti agenti dell’Fbi.
Il mese scorso hanno minacciato di spiccare un mandato di comparizione per il direttore dell’agenzia federale, Christopher Way, che non voleva mostrare alla Commissione un documento in cui ci sarebbero state le accuse fatte da un informatore che gli inquirenti federali avevano scartato perché non ritenuto attendibile. Dopo un lungo tira e molla alla fine il documento è stato mostrato in una riunione a porte chiuse tra i dirigenti dell’Fbi e i membri della Commissione.
Secondo le indiscrezioni non confermate nel documento Mykola Zlochevsky, presidente della Burisma, avrebbe fatto sapere ad un informatore di Rudy Giuliani di avere 17 conversazioni registrate con i Biden, che lui teneva per sicurezza. Non si sa se il documento sia stato mandato direttamente a Rudy Giuliani, o a uno dei suoi partner ucraini e per questo ritenuto scarsamente credibile da parte dell’Fbi. Giuliani in una intervista su Newsmax ha detto nei giorni scorsi che la persona che gli ha fatto queste confidenze è morta. Comer ha detto ai microfoni di Fox News che il documento mostra accuse solide e che sarebbe addirittura utilizzato in un’indagine in corso da parte del procuratore federale in Delaware che indaga su Hunter Biden.
“Secondo il documento mostrato ci sarebbero 15 registrazioni audio di telefonate tra lui e Hunter Biden”, ha detto Grassley che ha affermato che Zlochevsky ha conservato i nastri “come una sorta di polizza assicurativa”. Però di queste registrazioni per ora non c’è traccia e la persona che avrebbe svelato la loro esistenza è morta.
Ed ecco che in tutta questa nebbia è difficile capire come realmente si sia snodata questa intricata vicenda che già di per sé è complicata, ma che con la strumentalizzazione politica che ne viene fatta diventa ancora più impenetrabile.