A sei anni dal voto della Brexit del 2016, con cui una sottile maggioranza ha determinato l’uscita del Regno Unito dalla UE, molti indicatori economici ci infirmano che l’economica britannica è in sofferenza. Mentre per tutti i Paesi del G7 si registra una ripresa dopo la pandemia, il Regno sta registrando una pessima performance economica: le famiglie britanniche saranno ogni anno più povere di circa 900 sterline.
L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha reso noto che Londra avrà la peggior crescita economica fra il gruppo dei 7 Paesi più industrializzati nel prossimo anno – solo la Russia farà peggio, ma a causa delle sanzioni. Mentre l’attuale ministro del Commercio Kevin Hollinrake si dice convinto che l’inflazione sia un effetto della pandemia e tornerà ai valori normali verso la metà del 2023, la OBR (Office of Budget Responsability) dichiara invece che l’economia UK è in sofferenza a causa della Brexit. La pandemia ha avuto un termine, la Brexit no.
La Voce di New York ha intervistato sugli effetti della Brexit il professore Giovanni Capoccia, politologo dell’Università di Oxford presso il Corpus Christi College.
Dai dati OBR la Brexit avrebbe causato una perdita 100 miliardi di sterline all’ anno per l’economia britannica: entreranno 40 miliardi di tasse in meno nelle casse dello Stato. La profezia di Boris Johnson “Faremo della UK un Paese più ricco” si è rivelata fallace. La Brexit sta rendendo il Regno Unito il ‘nuovo malato d’Europa’?
La situazione economica globale era già preoccupante prima del 2021 a causa di fattori globali uniti ad una interruzione delle catene commerciali. Ma mentre l’economia dei G7 ha avuto una ripresa economica dopo la pandemia, la UK ha ancora una crescita nettamente inferiore agli altri Paesi del G7. Molti Stati europei, per esempio la Francia, hanno adottato politiche per calmierare il disagio sociale e contenere l’inflazione, che sarebbero impensabili nel Regno Unito.
Inoltre, nel fronteggiare la crisi energetica, il Regno Unito è in una posizione di particolare vulnerabilità: non avendo molta capacità di stoccaggio, il Paese è mal messo di fronte alle possibili variazioni del costo del gas. Fortunatamente durante l’inverno in corso la temperatura è stata benevola e le riserve accumulate sono state sufficienti. Il prossimo anno è una incognita.

Con la Brexit si è avuto un forte taglio alla immigrazione europea in UK, il che ha comportato un disagio per molte realtà produttive (forte carenza di manodopera nel settore sanità, turismo, alberghiero, agricolo etc..). Che ripercussione questo ha avuto nel settore accademico?
Il reclutamento di accademici non ha subito variazioni, è ancora prestigioso insegnare presso le Università dell’Oxbridge o del Russel Group. Ci vorranno almeno altri 10 anni per valutare se ci saranno delle variazioni in questo ambito, ma allo stato rimane improbabile che la situazione cambi.
Riguardo gli studenti, la situazione è invece diversa: determinando un considerevole aumento delle tasse universitarie per gli studenti europei, che sono ora assimilati agli altri studenti stranieri (prima della Brexit le tasse universitarie erano le stesse per studenti britannici e studenti provenienti dall’UE), la Brexit sta producendo una selezione fra studenti internazionali favorendo quelli provenienti da famiglie più abbienti, per esempio russi e cinesi. Per affrontare questa problematica e per dare valore alla contiguità culturale, l’università britannica avrebbe dovuto istituire delle borse di studio in grado di premiare gli studenti meritevoli dell’UE. Questo non è avvenuto.
Per quanto riguarda gli sviluppi della ricerca, quale è il rapporto fra le università britanniche e quelle europee dopo la Brexit?
La ricerca britannica, prima della Brexit, usufruiva dei vantaggi del progetto HorizonEU che alla ricerca devolve 95,5 miliardi di euro, promuovendo collaborazioni internazionali nei vari ambiti scientifici. Al momento, la situazione è molto precaria. L’UE ha vincolato la partecipazione del Regno Unito alla risoluzione del ‘Windsor Framework’, accordo raggiunto il 27 febbraio 2023, che interessa i confini marittimi dell’Irlanda del Nord. L’accordo deve essere ancora ratificato, e in particolare deve superare la prevedibile opposizione degli euroscettici e degli unionisti di Belfast. Se non verrà ratificato, il Regno Unito cotninuerà ad essere escluso da HorizonEU. Ma inaspettatamente Sunak ha recentemente espresso perplessità sulla partecipazione britannica ad HorizonEU anche in caso di ratifica del “Windsor Framework”.
Una promessa di Boris Johnson era di “riprendere il controllo delle nostre leggi e del nostro destino”. Ci sono al momento oltre 4000 regolamenti derivanti dalle normative UE che infittiscono la normativa britannica ‘sottomessa ad una schiavitù dettata dalla UE’, come dichiarato dall’ex ministro Jacob Rees-Mogg.
Il Regno Unito è stato uno dei membri più influenti fra i 28 dell’Unione Europea nella formazione del diritto europeo. Ora i Brexiters hanno rimesso tutto in discussione, e influenti sostenitori della Brexit favoriscono una forte de-regulation. Allo stesso tempo, però, la vicinanza geografica con l’UE porta naturalmente al commercio con gli Stati membri, il che impone il rispetto delle regole EU sui controlli ambientali, la qualità del prodotti e simili. Nello stralciare le regolamentazioni UE e favorendo la deregulation il governo britannico deve decidere quale direzione prendere: non commerciare più con i Paesi UE che richiedono conformità alle suddette regole, o imporre alle imprese che vogliono commerciare con la UE di creare due canali di produzione: una conforme alle regolamentazioni EU e una non conforme per commerciare con altri Paesi. Infine, la UK potrebbe scegliere di accettare la regolamentazione UE. In questo caso da “rule-maker” che era prima della Brexit (sia pur in condominio con gli altri Stati membri), il Regno Unito diverrebbe un ‘rule taker’.
Non le sembra che il dibattito politico britannico sia caratterizzato da una opposizione poco combattiva? Nel Labour Party non c’è un dibattito sul nuovo scenario venutosi a creare dopo la Brexit, né sui probabili danni a lungo termine all’economia. Anche i recenti scioperi dei lavoratori della sanità, trasporti, scuole etc. non hanno visto un deciso supporto del Labour Party.
Nelle elezioni del 2019, molti collegi elettorali storicamente laburisti sono passati al Partito conservatore sulla base del forte sostegno alla Brexit da parte di questi elettori. L’obiettivo primario del Labour al momento è quello della riconquista di questi collegi nelle prossime elezioni politiche. Questa logica è portata agli estremi soprattutto in un sistema maggioritario dove l’ottenimento di una maggioranza parlamentare dipende spesso dai risultati di alcuni collegi marginali, e dunque da quantità relativamente piccole di voti.
Infine, Il referendum scozzese del 2014 sulla separazione dal Regno Unito ebbe esito negativo, ma solo per una piccola percentuale. Gli scozzesi votarono per rimanere uniti al Regno Unito europeo, un Regno che non esiste più. Non pensa che queste premesse siano sufficienti a riattivare il sentimento separatista scozzese?
Certamente la questione della secessione della Scozia dal Regno Unito è ritornata di grande attualità dopo la Brexit. La prima ministra scozzese Nicola Sturgeon ha avuto ottimi risultati elettorali presentandosi alle elezioni sia locali che nazionali con un forte programma indipendentista e un forte sostegno a un nuovo referendum. Il problema è che non esiste una via costituzionale all’indipendenza della Scozia. Solo il parlamento di Westminster può concedere alla Scozia la possibilità di tenere un nuovo referendum, cosa che al momento appare molto poco probabile. Considerando che la Sturgeon è da poche settimane dimissionaria, il futuro prossimo della causa indipendentista in Scozia dipenderà in maniera importante da chi sarà il suo successore alla testa del Partito Nazionalista Scozzese.