Tra il 15 e il 28 ottobre del 1962, il mondo si trovò sull’orlo della guerra nucleare, benché la percezione del rischio fosse probabilmente superiore all’effettivo pericolo che intorno al globo viaggiassero ordigni di distruzione di massa. Dai documenti resi disponibili nei sei decenni trascorsi, si comprende che il fanatismo di Fidel Castro che avrebbe volentieri assistito allo spettacolo di salve atomiche sparacchiate contro il nemico yankee, non permearono mai l’atteggiamento sovietico, compreso dei rischi connessi.
Nikita Chruščëv, allora al vertice sovietico, capì di aver sbagliato nel valutare John Kennedy un giovane sbruffoncello incapace di reggere l’urto. Scoprì a suo danno che l’azzardo di rompere l’equilibrio del terrore che teneva in piedi un sistema bipolare sostanzialmente pacificato, si era spinto troppo oltre, e che non era il caso di insistere. Ingoiò il boccone amaro dell’insuccesso strategico (avrebbe pagato esattamente due anni dopo con la defenestrazione la brutta figura; sommata ad altro, certo!), ma la sua innata astuzia politica gli fece utilizzare le paure occidentali come eccellente opportunità per rivedere alcuni rapporti di forza con la Nato, in particolare sul fianco meridionale, lato Europa, del suo impero.
Dal braccio di ferro, l’Urss uscì tutt’altro che devastata. La ferraglia montata a Cuba tornò da dove era partita, ma con un accordo segreto, Kennedy accettò di riporre in magazzino un buon numero di missili a testata nucleare minacciosamente piazzati in Turchia.

Quegli eventi, passati alla storia come la crisi dei missili di Cuba, avevano avuto i prodromi ad agosto, quando l’intelligence statunitense iniziò a rilevare indizi su attività che lasciavano intendere la volontà sovietica di dispiegare a Cuba – neppure 800 km dalla Florida, qualche minuto di volo balistico – missili capaci di trasportare ordigni sul territorio statunitense. I servizi di sicurezza supposero che lo schieramento avesse compiti di deterrenza (lo sbarco alla Baia dei Porci era di un anno e mezzo prima), ma non se ne nascosero la natura di potenziale strumento di offesa: il 10 agosto, il direttore della CIA fece pervenire al presidente Kennedy un avvertimento in quel senso.
Nonostante a settembre si fossero avute due infornate di missili in territorio cubano, gli indizi si sarebbero trasformati in prove certe solo il 14 ottobre quando un aereo spia Lockheed U-2 documentò che vicino a San Cristóbal andava avanti la costruzione di un sito per SS-4, missili balistici sovietici. Cinque giorni dopo, gli U-2 identificarono un totale di quattro postazioni già in funzione. Dal 15 i pochissimi degli apparati supremi di sicurezza statunitensi che dovevano sapere, furono informati dalla Casa Bianca e messi sotto pressione perché elaborassero la risposta alla provocatoria invasione di campo sovietica.
Il 22 John Kennedy andò in televisione e informò il mondo che gli eventuali lanci da Cuba sarebbero stati ritenuti né più né meno attacchi sovietici in piena regola, e che di conseguenza avrebbero generato l’immediata rappresaglia sul suolo dell’Urss. Fece anche sapere a Fidel e ai suoi amici, che da quel momento Cuba veniva sigillata da un blocco navale che non avrebbe fatto passare uno spillo. La crisi, affermò il presidente statunitense, si sarebbe conclusa solo con il ritiro dei missili e la chiusura delle ben nove basi di lancio messe in piedi sull’isola caraibica dal duo Castro-Chruščëv.
Mosca abbassò le penne e sottostette al diktat di Kennedy, il quale, però – come si è detto – fu a sua volta costretto a delle concessioni: oltre alle garanzie riguardanti la Turchia, s’impegnò a rinunciare a ogni tentativo di invadere Cuba.

Si saprà in seguito che, durante la crisi, Mosca e Washington avevano spinto su livelli alti ma non estremi, l’allerta dei rispettivi sistemi strategici. Il Pentagono aveva adottato a un certo momento, nella scala dal minimo (5) al massimo (1) pericolo, il programma DEFCON 3: prevedeva 15’ di tempo per il decollo delle forze aeree strategiche. Ciò nonostante, in quattro situazioni (una davvero seria) la miccia per il confronto nucleare era stata lì lì per essere innescata.
Alla ricucitura tra le due superpotenze nucleari e all’abbassamento della tensione reciproca, collaborò anche Roma, attraverso il tandem cattolico Roncalli Fanfani (primo ministro del governo di centro-sinistra costituito a febbraio) che trovò orecchie attente in un altro cattolico, il rampollo della famiglia di immigrati irlandesi eletto alla Casa Bianca. In quei giorni, l’autorevolezza del papa era rafforzata dallo spettacolo grandioso offerto al mondo con l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, giovedì 11 ottobre.
Quella crisi impartisce qualche lezione utile per l’attualità. Se ne pescano tre.
La leadership sovietica non rispettò il Kennedy del dialogo, ma quello della fermezza. Un regime brutale come quello dell’attuale Russia, nel violare principi fondamentali che regolano i rapporti tra le nazioni, sarà sempre pronto a scambiare per debolezza comportamenti che non prevedano l’opzione uso della forza.
Il che non autorizza a trasformare la fermezza “passiva” in risposta “aggressiva”, perché la seconda attizza la tensione, rende la reciproca sfiducia illimitata, alimenta le occasioni per errori che possono risultare catastrofici (come nei 4 casi citati della crisi cubana). Occorre quindi favorire ogni segnale distensivo e adottare la flessibilità necessaria a creare le condizioni per l’uscita dalla crisi.
Nel caso cubano, Kennedy intelligentemente comprese che non poteva mantenere missili balistici armati con testate nucleari alla frontiera sovietica, quindi capaci di colpire in pochi minuti punti nevralgici dell’Urss, mentre negava lo stesso privilegio all’avversario. La simmetria, in queste faccende, è un principio basilare. Concesse lo smantellamento, senza che la misura fosse utilizzata per propagandare l’immagine di un’America arrendevole.
Solo il genio della diplomazia può far trangugiare agli stati la soluzione di equilibrio tra l’istinto alla sopraffazione e alla guerra, e quello alla collaborazione pacifica. La Santa Sede, oggi come allora, può contribuire alla ricerca di questo equilibrio. Francesco, come allora Giovanni XXIII, ha la fortuna di avere alla Casa Bianca un interlocutore cattolico. Per essere efficace, la forza spirituale della chiesa dovrà operare, ora come allora, nel segno che le è proprio: quello dell’inscindibile nesso tra Iustitia et Pax.