Trump sì, Trump no. Tempi difficili per il Partito Repubblicano, dilaniato dalla lotta intestina tra gli “ortodossi” e i “trumpiani”. La resa dei conti avverrà alle elezioni di metà mandato dell’8 novembre, quando si capirà se Donald Trump abbia ancora in mano il partito o se, invece, il Grand Old Party abbia voluto voltare pagina dopo il tentativo insurrezionale del 6 gennaio, abbandonando al suo mesto destino l’ex presidente. Fino ad allora, le due fazioni si sfideranno nella scelta dei candidati per le primarie. E la rivalità tra le due anime del Gop diventerà sempre più evidente.
Sabato sera Donald Trump è salito sul palco dei Delaware County Fairgrounds davanti a migliaia di suoi sostenitori accorsi per salutarlo con applausi e cori. Il 3 maggio si voterà per le primarie in Ohio, e il senatore Rob Portman ha detto che non si ricandiderà. Per il seggio sono scesi in campo 7 repubblicani, e l’ex presidente Trump ha dato il suo appoggio politico a J. D. Vance (sul palco accanto al magnate newyorkese), mentre l’apparato “ortodosso” sostiene Jane Timken.
Intervistato dalla CNN, David Cochran, uno dei partecipanti al rally, ha detto che ha deciso che sosterrà JD Vance, autore del film Elegia americana e stratega di investimenti ad alto rischio, dopo la benedizione di Donald Trump. Quando gli è stato chiesto perché a novembre voterà per Vance, Cochran ha detto: “Francamente, non so nulla di lui, ma se Trump dice che bisogna votarlo, io gli do il voto”. E con lui molti seguaci dell’ex presidente che accettano ciecamente le scelte del loro leader.
Sempre il 3 maggio si terranno le primarie in Indiana, per un seggio al Senato e uno alla Camera. Al Senato è data per sicura la riconferma del repubblicano centrista Todd Young, laddove alla Camera è lotta per il seggio lasciato vacante dal GOP Trey Hollingswort, che ha abbandonato la politica. Ma in questo stato il partito è strettamente legato all’ex vicepresidente Mike Pence e al fratello maggiore, Gregg, congressman di Columbus, Indiana, che con i “trumpiani” non hanno più molto in comune.

Che i politici siano poco sinceri è risaputo. Il problema per loro nasce quando le frottole che hanno raccontato in pubblico si scontrano con ciò che hanno detto in privato, soprattutto quando qualche sodale di partito ha registrato le loro dichiarazioni. Sono passati più di 15 mesi dal tentativo insurrezionale del 6 gennaio e le ripercussioni, politiche e giudiziarie, sono più che mai attuali.
La notizia che ha sconquassato il tiepido weekend di Washington l’ha pubblicata il New York Times mercoledì sera. “Basta, questo tizio ha stufato”, ha detto il leader della minoranza repubblicana alla Camera Kevin McCarthy, sfogandosi con alcuni suoi colleghi sul ruolo avuto da Donald Trump nel tentativo insurrezionale, aggiungendo: “Gli dirò che si deve dimettere”. Dopo che il prestigioso giornale aveva pubblicato la notizia, McCarthy l’ha prontamente smentita. “Non è vero nulla. Mai dette quelle cose”. E giovedì il New York Times è tornato alla carica pubblicando la registrazione della conversazione di McCarthy con gli altri parlamentari in cui riafferma tutte le cose che ha smentito.
Venerdì sera c’è stato poi un faccia a faccia telefonico tra McCarthy e Trump. Secondo McCarthy l’ex presidente avrebbe accettato di assumersi un minimo di responsabilità per l’assalto al Congresso. Notizia peraltro smentita dal Wall Street Journal, che ha parlato con Trump, il quale ha negato qualsiasi assunzione di responsabilità nell’attacco, contrariamente a quanto affermato dallo stesso McCarthy. Trump ha minimizzato le divergenze con il leader repubblicano pur non confermando il sostegno alle sue ambizioni di diventare il prossimo speaker della Camera se i repubblicani riusciranno a conquistarla nelle elezioni di midterm. Trump ha inoltre riferito al Wall Street Journal che non gradì la telefonata di McCarthy, ma che quest’ultimo non gli chiese mai di dimettersi. Un fatto, questo, ritenuto dall’ex presidente come “un grande complimento” perché lui ed altri repubblicani “capirono che stavano sbagliando e mi sostennero”.
L’omertoso silenzio degli altri repubblicani sulla vicenda del leader della minoranza repubblicana alla Camera ha mandato su tutte le furie la senatrice democratica Elizabeth Warren. “Kevin McCarthy è un bugiardo e un traditore degli Stati Uniti”, ha detto la parlamentare del Massachusetts a Dana Bash durante un’intervista domenicale alla CNN. “Kevin McCarthy si deve solo vergognare, e con lui i repubblicani che lo difendono”.

Nel frattempo, nei giorni scorsi la congresswoman trumpiana Marjorie Taylor Greene è stata interrogata in tribunale in Georgia per un’azione legale avviata da un gruppo di attivisti democratici che contestano alla sfegatata supporter di Trump il diritto di candidarsi nel ballottaggio per le prossime primarie in Georgia. Tre ore di interrogatorio in cui la parlamentare in modo goffo, tra sorrisini, occhi al cielo, sbuffi e risatine, si è trincerata affermando di non ricordare se avesse affermato e poi postato su Facebook che Nancy Pelosi è una traditrice della Costituzione; che un proiettile nella testa della speaker avrebbe risolto il problema dell’impasse legislativo alla Camera; che quelli che avevano preso parte al tentativo insurrezionale erano dei patrioti; che le elezioni fossero state truccate, e che Biden sia un presidente illegale. Ha pure rifiutato di dire se, come da lei postato su Facebook, interferire illegalmente, senza nessuna prova, al conteggio dei voti elettorali in un’elezione presidenziale sarebbe stato un atto di patriottismo.
Infine due stretti collaboratori e amici di Steve Bannon, accusati di una truffa ai danni di quanti avevano inviato delle somme di denaro destinate a finanziare la costruzione del muro con il Messico, si sono dichiarati colpevoli e potrebbero finire dietro le sbarre per anni.
Brian Kolfage e Andrew Badolato hanno detto a un giudice federale a Manhattan di aver usato i soldi dati all’organizzazione no-profit Build the Wall Inc. per spese personali nonostante avessero detto ai donatori che ogni centesimo sarebbe stato utilizzato per finanziare il muro di confine con il Messico. Bannon, ex stratega dell’ex presidente Donald Trump che era stato arrestato e rinviato a giudizio insieme ai due, è stato graziato da Trump l’ultimo giorno del mandato presidenziale nel gennaio 2021 e non è più perseguibile. Un quarto uomo accusato nel caso, Timothy Shea, il mese scorso ha raggiunto un accordo in linea di principio per dichiararsi colpevole, ma poi ha deciso di andare avanti con il processo.
Steve Bannon era il più noto dei quattro imputati accusati di aver saccheggiato le casse della società We Build the Wall, che aveva raccolto 25 milioni di dollari. I pubblici ministeri affermano che $1 milione del denaro è stato utilizzato per viaggi e spese personali, incluso l’acquisto di una Range Rover per Bannon. Gli imputati inizialmente avevano affermato che l’accusa era motivata politicamente e avevano negato gli illeciti. Secondo gli inquirenti federali, i quattro truffatori avrebbero detto ai donatori che “il 100% dei fondi raccolti” per We Build the Wall sarebbe stato utilizzato per la costruzione, ma poi hanno iniziato a escogitare modi per dirottare i fondi pagando in eccesso gli appaltatori per ricevere tangenti, versando questi fondi in una società di comodo che poi li riversava direttamente nei loro conti in banca.