Breve premessa, esemplificativa di un metodo (per non scrivere di “frammentarietà del diritto penale”).
In Italia ci sono oltre 200.000, fra docenti e personale ausiliario, che finora non hanno inteso vaccinarsi. La loro scelta mette a repentaglio, in questa misura, l’intero spettro dei beni pubblici: salute, istruzione, genericamente l’economia (costi indiretti da minorato servizio -DAD- o per prestazioni sostitutive -supplenze, gestione familiare, ecc.), nei termini divenuti universalmente noti in quest’ultimo anno e mezzo.
Tuttavia, si deve recisamente negare che sarebbe giusto, per educarne il civismo, ricorrere alla minaccia della sanzione penale.
E andiamo cosí al tema del DDL Zan, tanto delicato, da aver indotto un intervento persino nel Vaticano di Francesco I, addirittura ventilandosi una questione diplomatica sul Trattato Lateranense.
Abbiamo introdotto con quel paragone “metodologico” il tema di questa discussa proposta legislativa, perché si tenga presente che dove si discuta di “idee”, per quanto malsane, o di reati “a catena interpretativa”, con le manette, bisognerebbe andarci piano.
Il Disegno di Legge sarà discusso al Senato a partire dal 13 Luglio, ma senza un relatore (giusto per ribadire la complessità del quadro). Esso prevede di innestare sull’art. 604 bis del Codice Penale, introdotto dalla Legge Mancino e che già punisce chi “propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, una nuova fattispecie incriminatrice: per cui tali condotte (“propaganda idee” e “atti di discriminazione”) sarebbero punibili anche quando siano “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.
È nostra sommessa opinione che ad una giusta meta (l’affermazione di un principio), si voglia giungere per un’ingiusta via (attraverso la riduzione sanzionatoria della complessità inevitabilmente posta da temi così profondi, e profondamente “tellurici”).

La pena giuridicamente intesa, non può promuovere alcuna acquisizione di conoscenza o di moralità: perlomeno, in una società libera, o che non voglia ulteriormente compromettere la sua già ampiamente compromessa libertà democratica, come invece quella italiana.
Quello che la pena può fare è proteggere, con la rozzezza che gli è propria, solo quei beni/interessi che risultino consolidati entro uno spettro culturale sufficientemente consolidato, e secondo una sensibilità plausibilmente diffusa (e pure cosí il perimetro rimane piuttosto fluido).
E nemmeno da ogni specie di aggressione; ma solo da quelle che risultino particolarmente lesive del bene/interesse considerato.
Rozzezza penale, dicevo: dato che murare vivo per un certo tempo, o anche solo minacciare di farlo, un essere umano, rimane un atto primitivo in un contesto di vita evoluto: malum actionis propter malum passionis, all’antica: il male della sofferenza (la pena) per il male di un’azione (il reato); senza parlare della pena di morte o dell’Ergastolo, che costituiscono, diciamo, “i campioni di specialità”.
Per questa ragione il reato-archetipo è l’omicidio volontario. Una sorta di dialogo alla pari, fra azione e reazione primitivi.
A partire da quando il soggetto/Stato ha preso a cimentarsi con funzioni più complesse, o di regolazione, o di promozione (culturale, sociale, economica), diciamo da poco più di un secolo, al reato si sono però venute attribuendo anche ragioni latamente “istruttive” (la questione del finalismo rieducativo della pena agisce su un altro piano: quello del reinserimento sociale del condannato secondo la “Tavola dei Valori” già acquisita alla comune condivisione: un piano, perciò, tendenzialmente opposto a quello del “reato istruttivo”, che intenderebbe promuovere l’inedito, o, secondo un diverso punto di vista, l’avanguardistico).
Il “reato istruttivo”, tuttavia, è scivoloso. In quanto agisce per definizione su una “frontiera”, esclude chi “non sta al passo”. Ora, pare facile, estromettere dal consorzio civile chi assume atteggiamenti aggressivi verso un nuovo conseguimento culturale (l’identità di genere, nel caso in discussione), e “non sta al passo” con il comune incivilimento. Ma le cose non sono così semplici come possono apparire.

Il rischio concreto, il più delle volte, è di prendersela col “coatto” perché è coatto.
Cioè, di rinunciare preventivamente alla persuasione/educazione, favorendo la coazione: tipico ritrovato benpensante, da che mondo è mondo. Per cui gli ultimi culturalmente, e spesso socialmente, i non progrediti o regrediti, sono sempre un po’ troppo “lumpen”, per dedicargli altro che un calcio e via. Dunque, a coatto, coatto e mezzo.
Ci sono poi atteggiamenti più articolati, e non sempre scopertamente ostili: sono di tipo difensivo/reattivo, e rubricabili, dove sostenuti da un paradigma ideale, sotto la generica dizione di “tradizione”; oppure, più semplicemente, con una disposizione empiricamente egoistica, mirano al mantenimento di un tranquillizzante status quo; ma non sono meritevoli per questo di uno stigma così conclusivo come quello penale. L’obiezione che non sarebbe questa la materia della punizione, ma le formule che, a partire da quegli atteggiamenti, sarebbero intesi alla “discriminazione”, elude la questione: poiché, sia l’atto discriminatorio che il suo oggetto (l’identità di genere), sono nozioni troppo vaghe per tradursi in un concetto prensile e preciso, quale deve essere la fattispecie incriminatrice (cosa punire?). E, addirittura, non v’è nemmeno accordo in letteratura sulla questione, qui centrale, sesso/orientamento sessuale: se sia il primo a determinare il secondo, o se questo sia più o meno autonomo da quello, essendo una condizione di ordine essenzialmente sociale o antropologico. In sintesi, se si tratti di “natura” o di “cultura”.
A questo primo inconveniente, se ne aggiunge un secondo, complementare.
La inanità del primitivismo penale a promuovere civilizzazione, a costruire nuove Tavole dei Valori, piuttosto che tutelare quelle già acquisite, induce una dinamica autogiustificatoria di una scelta incriminatrice “allo scoperto”. Il “reato istruttivo”, si sostiene, lavora come un aratro: prepara il terreno per le colture/culture che verranno. Al tempo stesso, impegna lo Stato a rafforzare la sua “promozione”: è un segno di “serietà”.
Tuttavia, per stare ai “classici”, tre secoli di tentativi gesuitico-inquisitori hanno sterilizzato lo sterilizzabile, senza convincere nessuno: né la Storia, né i popoli, né i fedeli né gli infedeli.
Insomma, la Tavola dei Valori si costruisce con la fatica produttiva di pialla e cesello, non con le velleità contundenti di scure e mazza.
Sicchè, il “reato istruttivo” in quanto tale stinge inevitabilmente in propaganda. E propaganda violenta. Sarà sufficiente ricordare l’investimento “educativo” che sulla sanzione penale venne compiuto dal fascismo.
Anzi, il piano “simbolico-espressivo”, fu proprio quello nel quale questo primo regime di massa della nostra storia politica spese, con ogni energia, le sue munizioni penalistiche. L’Italia Fascista si voleva la Nuova Italia, e il nuovo doveva “avanzare”, senza indulgenze o eccessi “parolai” (è, di nuovo, un confronto “di metodo”, non di “merito”; precisazioni mai superflue, data la nota “Legge della Madre-sempre-incinta”).
Il “reato istruttivo” è un male in sè. E le “buone intenzioni”, ove accompagnate dallo “scapaccione” davighiano come via alla civiltà, non valgono un fico secco. Sortiranno un effetto pessimo, inevitabilmente. Cioè, controproducente.
Ed infine, c’è una terza ragione, che quasi tutto compendia: il nostro sistema giudiziario; i nostri Vostro Onore.
Anche ammesso che quanto fin qui sostenuto non si regga, resta, ineludibile, una domanda: si può seriamente pensare di incivilire attraverso l’inciviltà istituzionalmente organizzata? Di tutelare, a partire dal luogo in cui è stata soppressa ogni tutela e garanzia? Di elevarci, scavando ancora nel nostro abisso?
E ci sarebbe da scrivere un capitolo infinito sull’attitudine di molto nostrano ceto “pensante”, ad annunciare soluzioni di principio, del tutto disinteressandosi del “chi” e del “come” quel principio dovrebbero rendere vivo e operante.
Ma le lusinghe giacobino-littorie del Reato-Pedagogo, a questo tendono: a mostrare il pensiero che non c’è, e a munire il potere che c’è.