E’ democratico, ma non lo sembra. Ricopre il seggio detenuto per 51 anni dal senatore democratico Robert Byrd, mitica figura nel partito dell’Asinello. Ha fatto il giuramento al Senato nelle mani di Joe Biden, quando era vice presidente, il 15 novembre del 2010. Si vanta di non aver mai avuto una buona relazione con Barack Obama. Ha votato al Senato il 50% delle volte in disegni di legge presentati dai repubblicani. E’ Joe Manchin il senatore della West Virginia che in questi giorni tiene sotto scacco la Casa Bianca.
Settantatre anni, alto un metro e 90, slanciato, è andato alla West Virginia University con una borsa di studio sportiva: giocava a football ma un infortunio lo ha messo fuori squadra. Laurea in economia e poi lavoro per breve tempo nell’azienda del padre che aveva un negozio di mobilia e tappeti e a tempo perso faceva anche il sindaco di Farmington, 350 abitanti al confine con la Pennsylvania e l’Ohio. Un paesino come tanti altri della West Virginia, ricco di carbone nelle cui miniere migliaia di emigranti italiani hanno lavorato e perso la vita. Di Farmington si ricorda solo la strage avvenuta nel 1968 in cui morirono 78 minatori. La West Virginia è piena di miniere e di morti nelle miniere. A 10 chilometri da Farmington c’è Monongah, un’altra miniera nella quale nel 1907 morirono circa 300 italiani. Una emigrazione quella dal Regno d’Italia che ha attratto milioni di connazionali che per sopravvivere hanno fatto i lavori più ingrati come quello di stare 12 ore al giorno a picconare sottoterra il carbone della West Virginia e della Pennsylvania. Il cognome Manchin era originariamente Mancini, poi il bisnonno di Joe lo ha americanizzato.

Il padre e lo zio si alternavano come sindaci di Farmington, un altro zio, Antonio, era il tesoriere dello Stato. La sua carriera politica subì un brutto colpo quando si “persero” 280 milioni di dollari dei contribuenti tra aprile e giugno del 1987. Si dimise per non perdere la pensione mentre era in corso il processo di impeachment. Due anni dopo si ricandidò all’Assemblea statale e venne rieletto. Con la politica in famiglia Joe Manchin non poteva fare altro che diventare a 35 anni delegato dell’Assemblea Statale, poi senatore dello Stato ed infine governatore per due mandati e, dopo la morte di Robert Byrd, prendere il suo seggio al Senato.

In West Virginia è amato dal suo elettorato, unico democratico in uno stato in cui tutto l’apparato pubblico, dal governatore al Tesoriere, dall’Attorney General al Segretario di Stato, sono repubblicani, così come l’altro senatore federale Shelley Moore Capito.
Dopo due mesi dalla sua elezione al Senato aveva incontrato o ricevuto nel suo ufficio o era andato a pranzo o a cena con tutti gli altri 99 senatori “tanto per conoscerli meglio” afferma.
E’ uno dei fondatori del movimento politico No Labels, “gruppo parlamentare – si legge nel loro sito web – composto da democratici, repubblicani ed indipendenti con l’intento di mettere insieme i nostri leader per trovare le soluzioni ai difficili problemi del Paese”.
Si è opposto con altri due senatori democratici al cambiamento delle regole del Filibuster voluto dal capo della maggioranza democratica al Senato Harry Reid nel 2013 per sbloccare lo stallo nella nomina dei magistrati federali. Con quasi 2 mila giudici nei 50 Stati che erano andati in pensione i democratici non riuscivano a superare l’ostruzionismo fatto da Mitch McConnell per la nomina dei nuovi magistrati e il settore giudiziario era in enorme difficoltà. Nel 2013 Harry Reid decise allora di cambiare le regole del Filibustering modificando il regolamento del voto che anziché ad essere a maggioranza qualificata (60 senatori) venne spostata a maggioranza semplice solo per la nomina dei magistrati federali, escludendo quelli della Corte Suprema. Regola che poi non venne rispettata da Mitch McConnell che, conquistata la maggioranza, la modificò anche per la nomina dei giudici della Corte Suprema.
Per Joe Manchin il filibuster è sacro. E’ l’arma che impedisce alla maggioranza di decidere senza fare la mediazione con la minoranza e lui, che viene scherzosamente chiamato “il grande mediatore”, non ci sta. Per lui cambiare le regole del Senato è un’eresia. Ripete che le regole nella società civile hanno una ragione, debbono essere rispettate e che non le si modificano a convenienza. Il suo punto di vista sul Filibuster è condiviso da molti altri suoi colleghi, democratici e repubblicani, che però pubblicamente non lo ammettono. La sinistra del partito lo considera un rinnegato, un repubblicano vestito da democratico.
La sua difesa ad oltranza delle regole sarebbe una cosa giustissima se il Congresso non fosse così polarizzato e la mediazione non venisse considerata una forma di debolezza. Diversi punti di vista che dal lato pratico mettono in gravissima difficoltà Joe Biden e il partito democratico che al Senato, composto da 50 democratici e 50 repubblicani, ha la maggioranza solo con il voto del presidente del Senato. In pratica basta un solo dissidente che i piani della Casa Bianca per il rilancio dell’economia e dell’occupazione restano solo una bella idea.
Ora sta a Joe Biden trovare la soluzione. La mediazione richiesta e imposta da Manchin sembra la soluzione. Il problema resta poiché l’opposizione ha già disposto che verranno bloccate tutte le proposte dei democratici e tra i repubblicani non sembra esserci un emulo di Joe Manchin.