A qualche giorno dal fattaccio del Boeing 737 dirottato da un jet militare bielorusso su Minsk, esce allo scoperto Vladimir Putin, il migliore alleato del dittatore bielorusso Alyaksandr Lukashenka. “Mosca non ha motivo di non fidarsi di Minsk”, ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aggiungendo: “La Bielorussia non ha forzato l’aereo ad atterrare di sua iniziativa, stava seguendo le regole appropriate in caso di una minaccia”.
L’antefatto è noto. Domenica 23 la Bielorussia, presumibilmente in accordo con la Russia, ha ridotto alla propria volontà pilota e passeggeri del RyanAir 4978 in arrivo su Vilnius da Atene. Il velivolo è stato costretto ad atterrare a Minsk: qui due passeggeri, il bielorusso Roman Protasevich, giornalista e oppositore del padre padrone della repubblica ex sovietica, e la compagna russa Sophia Sapega sono stati trattenuti dalla polizia. Ore dopo, fonti ufficiali hanno informato che Protasevich, ex-direttore del canale bielorusso di informazione Telegram, Nexta, era stato ricoverato in ospedale per problemi cardiaci, una notizia che ha creato allarme, visto che giorni prima un altro dissidente “sotto custodia” era andato all’altro mondo dopo una diagnosi del genere.

La stessa sera Minsk spiega di aver “salvato l’Europa” dalla “possibile minaccia di bomba a bordo”, e di aver scoperto la presenza sul velivolo di Protasevich dopo l’atterraggio del Boeing. Il giorno dopo interviene il presidente Lukashenka affermando che era stato necessario fermare il passeggero perché terrorista, “estremista mercenario che lavorava per i servizi segreti occidentali”, e che avrebbe anche “preso parte alla guerra nel Donbass” in Ucraina. In asse con Mosca, specifica: “Questi fatti sono noti anche nella fraterna Russia e lui non lo ha nascosto”. Il “lui” sta per il povero Protasevich, mostrato in pubblico con evidenti segni di percosse in viso: dal che si può dedurre quale valore processuale avrà ogni sua eventuale confessione.
Intervenendo in parlamento, sentendosi probabilmente sostenuto dalla supposta ammissione, il dittatore va oltre: “C’era un terrorista su quell’aereo; lui e i suoi complici hanno anche tramato un massacro“. La versione è francamente ridicola, e fa a pugni con quella enunciata dal ministro degli Interni domenica sera, dettagliata lunedì da un portavoce, secondo la quale una email avrebbe avvertito che il movimento palestinese Hamas aveva messo una bomba a bordo del RyanAir, per farla esplodere sulla capitale lituana e castigare l’Europa per l’appoggio ad Israele.
Al susseguirsi delle versioni – con i precedenti non proprio da boy scout accumulati da Lukashenka – a parte Putin non crede nessuno, tanto più che a bordo dell’FR4978 risultano imbarcati, secondo fonti dei servizi occidentali, agenti russi e bielorussi. Tuttavia, inspiegabilmente, il mondo non fa la voce grossa, ed è solo l’Unione Europea ad assumere provvedimenti duri. Il Consiglio Europeo straordinario chiude aeroporti e spazio aereo UE a Belavia, la compagnia di stato bielorussa. I vettori UE non sorvoleranno i cieli bielorussi per evitare rischi, ridisegnando le loro rotte nordiche. Aumentano i soggetti colpiti da sanzioni mirate, con altri nomi ed entità nella black list capeggiata da Lukashenka, aperta dopo le frodi elettorali dello scorso ottobre e già rinforzata dopo la violenta repressione di opposizione, manifestanti pacifici, giornalisti, attuata dal regime.

La mano tesa di Putin prevede ora un incontro bilaterale a Soči per venerdì 28, con l’intenzione, scrive la velina dell’agenzia di stampa Interfax, di affrontare “soprattutto questioni economiche, alla luce della situazione che si sta sviluppando intorno alla Bielorussia e alla Russia”. In un’azione evidentemente concordata, s’assiste al pendant da Mosca di quanto Lukashenka ha appena dichiarato al parlamento di Minsk, lunedì 23, in risposta alle accuse sul dirottamento: “Gli attacchi dell’Occidente contro la Bielorussia hanno superato una linea rossa… Sono passati dall’organizzazione delle rivolte alla fase dello strangolamento“. Cavalcando l’antica e mai sepolta teoria slavista del nemico alle frontiere, il padre padrone bielorusso afferma che quella zona dell’Europa è sotto un attacco concentrico che sarebbe solo agli inizi: la Bielorussia figurerebbe come “un terreno di prova sperimentale, prima di muovere verso est e attaccare Mosca“.
Un vero peccato per i suoi concittadini, che Lukashenka invece di farneticare su supposte cospirazioni di un fantomatico occidente, non abbia fatto riferimento al discorso che, nelle stesse ore, la fuoruscita Sviatlana Tsikhanouskaya, leader riconosciuta dell’opposizione democratica, faceva in videoconferenza alla commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo riunita insieme alla Sottocommissione sui Diritti umani. Si tratta della sconfessione più puntuale della tesi cospirazionista che Russia e Bielorussia stanno provando a iniettare nei loro popoli. La rivolta bielorussa, ha detto la donna, non è una “rivoluzione geopolitica… non è né prorussa né antirussa, né pro-UE né anti-UE … è semplicemente pro-Bielorussia ed è una rivoluzione democratica”. E ha aggiunto che obiettivo della Bielorussia emersa dalla scorsa estate è diventare un “partner affidabile”, “rispettato dal mondo”, fondato sullo stato di diritto. Ha aggiunto: “La nostra lotta è una lotta per la libertà, per la democrazia e per la dignità umana. È esclusivamente pacifica e non violenta. Chiediamo solo tre cose fondamentali: il rilascio di tutti i prigionieri politici, la fine della violenza poliziesca e la convocazione di nuove elezioni libere e giuste (fair)”. Tsikhanouskaya, che era accompagnata dagli esponenti dell’opposizione Volha Kavalkova e Pavel Latushka, ha chiesto agli europarlamentari e all’Unione Europea di continuare a mostrare solidarietà con il popolo bielorusso e di sostenere la società civile e i media bielorussi, costantemente sotto pressione dal regime. “Vi chiediamo di restare uniti al popolo bielorusso; abbiamo bisogno del vostro appoggio”.

Sapremo presto se il duo slavo dell’estrema Europa cavalcherà la crisi per indurire il fronte anti-democratico che si va costituendo nel mondo, come fosse una riedizione della guerra fredda. O se tenendo presente il vicino incontro di Ginevra del 16 giugno tra Putin e Biden, a Soči bagnerà le micce nel mar Nero, in attesa di tempi migliori per accenderle.
Di sicuro c’è che la comunità internazionale registra un altro dissidente politico a rischio di pena capitale (la Bielorussia è fuori dal Consiglio d’Europa e non ha assunto obblighi internazionali in quella materia); le rotte dei voli civili internazionali sono a rischio; un paese membro delle Nazioni Unite viola le garanzie della convenzione di Chicago per i voli civili internazionali; per la prima volta un paese terzo dirotta un volo civile di collegamento tra capitali di due paesi UE e Nato; sull’accaduto Putin si schiera accanto al dittatore bielorusso.
S’impone una riflessione seria e urgente per i paesi di democrazia liberale, partendo dalla constatazione che Lukashenka, in conseguenza delle sanzioni che gli europei hanno adottato nei suoi confronti, difficilmente cambierà registro. Spalleggiato da Mosca, il dittatore di Minsk si è inserito in un elenco di sodali, dispotici e insieme moderatamente ricchi, che ritengono di contare sul consenso di un elettorato al quale non fanno mancare taluni benefici economici e sociali. Singapore, Cina, Bielorussia, Arabia Saudita, per citare qualche paese in elenco, sostengono di garantire un accettabile livello di benessere ai cittadini, proprio perché mantengono in poche mani la barra della direzione politica e dell’economia. Praticano il trade-off libertà contro benessere economico: il pugno di velluto serve per amministrare l’autoritarismo paternalistico, quello di ferro per colpire con ferocia gli oppositori. La Bielorussia, secondo Banca Mondiale, ha un tasso di povertà (0,5%), comparabile con la regione scandinava e nord europea, inferiore a quello di ogni paese post-comunista membro dell’UE e a quello medio dell’UE (2,9% nel 2020). I servizi sociali e il welfare, anche per i non lavoratori come pensionati e loro famiglie, sono di livello conseguente, salvo alcuni limiti riscontrabili nel sistema sanitario. Per un popolo uscito stremato dall’Urss, mai abituato alle libertà umane così popolari in occidente, non è una situazione disprezzabile. Così il regime può, alla lunga, avere gioco facile e l’opposizione vita durissima.