La vicenda di Matteo Renzi e dei suoi rapporti con l’Arabia Saudita offre un importante spunto per riflettere su almeno due aspetti che caratterizzano il nostro sistema politico: l’assenza di un’adeguata regolamentazione delle attività di lobbying nel nostro paese, a differenza di quanto avviene invece in molte altre democrazie occidentali, e l’incapacità della nostra classe politica di dedicarsi a carriere alternative, lontane dalla politica attiva, una volta terminata un’esperienza elettiva, o di governo.
Nel corso degli ultimi 50 anni, in Italia, si sono susseguiti svariati disegni di legge per regolamentare il lobbying, senza mai riuscire a produrre un testo capace di farlo adeguatamente, mantenendo così colpevolmente opaco un processo, quello della formazione delle decisioni pubbliche, intese sia in senso lato che in senso stretto, che dovrebbe invece essere aperto e trasparente.
Questo ha da un lato contribuito a demonizzare ancor di più il concetto di lobbying e dell’altro ha concorso a intorbidire ulteriormente tutte quelle attività che di fatto rientrano, quotidianamente, nell’attività di lobbying stessa.
Che gruppi di interesse diversi cerchino di influenzare le scelte dei decisori pubblici, fa infatti parte di qualunque processo democratico che si rispetti. Basti pensare, ad esempio, ai tanti comitati cittadini che sorgono in difesa di certi territori del nostro paese, un caso su tutti, quello dell’Ilva di Taranto, i quali chiedono legittimamente di partecipare ai processi decisionali in campo ambientale e civile.
Anche quest’attività rientra, a tutti gli effetti, nella categoria del lobbying e dimostra da un lato come non si possa, e non si debba, associare al lobbying un’accezione esclusivamente negativa, quasi come se ad essere rappresentati fossero sempre e solo interessi loschi o poco leciti, e dall’altro come il tema vada necessariamente regolamentato, per stabilire chiaramente quali interessi siano legittimamente rappresentabili, da chi e in che sedi, e soprattutto rendendo il processo decisionale il più trasparente possibile.
Le soluzioni ci sono, mutuate per lo più da quei paesi che già da tempo si sono dotati di regole chiare e precise in tal senso: l’introduzione di un apposito registro pubblico dei lobbisti, l’approvazione di un codice etico valido per tutti i protagonisti, attivi e passivi, di tali attività e la creazione di un’agenda pubblica degli incontri, che riporti la data dell’incontro, i soggetti che vi hanno partecipato, i temi in discussione e la documentazione depositata, oltre ovviamente alla previsione di pene precise per chi trasgredisse.
La nota vicenda di Matteo Renzi, che qualche settimana fa, ospite a Riad del principe ereditario Mohammed bin Salman, si è speso in un endorsment a favore dell’Arabia Saudita, è decisamente più opaca, per almeno due ragioni: innanzitutto perché l’ex presidente del consiglio è un Senatore della Repubblica in carica, per di più membro sia della 3ª commissione permanente del Senato (Affari Esteri) che della 4ª (Difesa); in secondo luogo, perché gli interessi oggetto dell’attività di cui si è reso protagonista riguarderebbero una potenza straniera, l’Arabia Saudita appunto.
Renzi, come riportato da alcuni quotidiani italiani, sarebbe da tempo membro del comitato consultivo del Future Investments Initiative Institute, un’organizzazione controllata dal Public Investment Fund of Saudi Arabia, diretto proprio da Mohammed bin Salman, e per il qual ruolo, Renzi, percepirebbe, del tutto lecitamente (in assenza di leggi che regolamentino questi aspetti), 80.000 euro all’anno.
Com’è noto, stando ad un rapporto della CIA recentemente desecretato dall’amministrazione Biden, Mohammed bin Salman, sarebbe il mandante dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuta nell’ottobre del 2018.
Ora, risulta piuttosto evidente che per un paese come l’Arabia Saudita, alla disperata ricerca di legittimità internazionale, soprattutto dopo la vicenda Khashoggi e in seguito ai numerosi rapporti di Amnesty International che testimonierebbero le continue violazioni dei diritti umani all’interno del paese, l’endorsment dell’ex presidente del consiglio italiano, nonché ex sindaco di Firenze, patria del Rinascimento (quello vero), torni piuttosto utile.
Ed è proprio per questo che il ruolo di Renzi si profilerebbe a tutti gli effetti come attività di lobbying a favore di una potenza straniera, lasciando così aperte molte domande che incidono più sul piano etico, e dell’opportunità politica, che su quello giuridico: come possiamo essere certi che Renzi e il suo partito agiscano con obbiettività e autonomia quando chiamati ad occuparsi in parlamento dei rapporti tra l’Italia e l’Arabia Saudita? È opportuno che un senatore in carica offra consulenze, retribuite o meno, ad un paese straniero?
Com’è noto, in realtà, dall’elezione a Senatore della Repubblica avvenuta nel marzo 2018, Matteo Renzi si è dedicato a numerose attività tipiche di molti ex esponenti di governo europei (come pure di molti ex-presidenti americani): ruoli ben retribuiti da consulenti nei board di organizzazioni internazionali, conferenze profumatamente pagate in giro per il mondo, pubblicazioni di libri. Ancora una volta, tutto lecito in assenza di una normativa ad hoc.
Il problema non si porrebbe se Renzi si fosse occupato di tali attività da cittadino semplice, una volta abbandonata la (fulminante) carriera politica. Sono infatti molti gli esempi di ex-governanti europei che una volta dismessi definitivamente i panni del politico, si sono dedicati ad attività analoghe: l’ex cancelliere tedesco Gerard Schröder, ad esempio, siede da anni nel consiglio di amministrazione di Rosneft (colosso petrolifero russo), lo spagnolo Jose Maria Aznar è attualmente membro del board di News Corp. e di Barrick Gold. Come non citare poi i compensi stratosferici di Tony Blair, tra i più richiesti nel circuito dei conferenzieri internazionali, che nel 2015 arrivò a chiedere la bellezza di 350,000 dollari per uno speach di soli 20 minuti. Ma anche quello di Renaud Dutreil, già parlamentare e ministro all’industria francese, in seguito diventato chairman del gruppo Louis Vuitton negli USA, una volta abbandonata la carriera politica.
È quindi del tutto legittimo che chi abbia maturato una certa esperienza al governo di un paese possa poi mettere a disposizione la medesima esperienza, con forme e ruoli diversi e a fini di lucro, a patto appunto che non mischi le due cose.
Sarebbe anzi il caso che anche in Italia si iniziasse a seguire i molti esempi europei, introducendo il prima possibile una normativa più chiara e stringente su ciò che gli esponenti politici del nostro paese possono e non possono fare, tanto durante il proprio mandato elettivo o di governo, quanto dopo (in Gran Bretagna, ad esempio, agli ex-ministri è precluso lo svolgimento di attività di lobbying per il biennio successivo alla cessazione della carica).
E magari, un’iniziativa del genere avrebbe anche il merito di promuovere un certo riciclo della classe dirigente del nostro paese.