Il Presidente della Commissione Antimafia, Sen. Nicola Morra, si è condotto in termini politicamente triviali. Vediamo perché.
Giovedì, il Presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini, è stato sottoposto a custodia cautelare nel domicilio, perché accusato di voto di scambio e, naturalmente, essendo un amministratore pubblico eletto in Calabria (o in Sicilia o in Campania), di concorso in associazione mafiosa. Il “naturalmente” non è un vezzo pigramente polemico, ma rimanda al nucleo della trivialità politica. E vuole essere un atto di memoria al “Canone Mannino”, “assolto-ma-sempre-imputato”, da trent’anni.
Nulla si può sapere del valore di queste accuse a Tallini, non si dice fino a sentenza definitiva, ma almeno fino ad uno straccio di giudizio in primo grado.
Anche perché, il “voto di scambio” è un’impostura congetturale del benpensante contemporaneo italiano: il quale, dalla sua irrealtà, più o meno evoluta e terziarizzata, ignora la sottostante, e per lui remota, realtà di uomini e donne cui pretende riferirsi: giacché, realmente non gli interessa e non la conosce, e vi sovrappone questo feticcio paranormativo per poterne strologare, all’occasione, fra un Rt e un plateau.
E così immagina il possesso di “voti sicuri”, come fossero casse di vino in cantina, numerabili e disponibili una per una; e attribuisce ad ogni vanteria o millanteria di quelle “terre lontane”, la terribilità di una verità misteriosa: con un piglio non dissimile da quello con cui, certe signore dell’impero vittoriano, favoleggiavano sui feroci “usi e costumi” delle tribù sudafricane: magari mentre i loro mariti ne organizzavano il sistematico massacro, in nome della civiltà, s’intende.
Ora, il Sen. Morra, nel caso in esame, ha compendiato questa specie di trivialità benpensante, tale perenne pretesa civilizzatrice innervata da violenza e arroganza.
Nelle stesse ore in cui si apprendeva la notizia dell’arresto, si sentiva già in grado di affermare che “questo signore… in virtù del codice di autoregolamentazione della Commissione Antimafia, risultava impresentabile…Oggi si trova ai domiciliari”. Quanto a dire, è tutto dimostrato. Avanti un altro.
Ma questo è solo un preludio alla espressione della piena trivialità. Delle sue due componenti, arroganza e violenza, vale piuttosto a ribadire la prima, l’arroganza: il nostro sa che, in ogni caso, non sarà mai responsabile di questo giudizio, perché il Canone Mannino insegna che il potere non chiede mai scusa per i suoi errori; il potere è irresponsabile, il potere non deve mai dare conto di sé. Per cui, può permettersi di affermare quello che vuole, nella certezza immorale che una sconfessione non sarebbe mai fatta passare come tale: ma solo come un tentativo di macchiare la pura verità, già luminosa fin dal suo primo apparire. Perciò, “l’avevo detto io”.
La trivialità politica, però, si definisce sul piano della violenza, dicevamo. Ed infatti oggi Morra aggiunge: “Tallini è stato il più votato nel collegio di Catanzaro, se non il più votato in Calabria. È La dimostrazione che ogni popolo ha la classe politica che si merita”.
La biliosa maledizione di moltitudini attinge un registro palingenetico: la salvezza vi è preclusa perché siete infedeli, impuri. In nome della vostra impurità, tutto sarà possibile fare. La carica di violenza che un simile registro comporta, non ha bisogno di grandi spiegazioni: è la stessa dei totalitarismi novecenteschi.

D’altra parte, che ci si muova in una dimensione di violenza politico-culturale dispiegata, risulta dal terzo momento della trivialità morriana: “era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso”.
Il “nesso” è duplice: Santelli e Tallini sono dello stesso partito, Forza Italia; la Calabria li ha votati entrambi, la Calabria “ è irrecuperabile”, cioè, maledetta e degna di maledizione, finché si manterrà nell’impurità: “non affronterà la situazione con piena consapevolezza”, nello stento lessico catechistico morresco.
E tuttavia, questo, non è ancora il grado zero della trivialità.
Lo si raggiunge considerando l’accorgimento fariseo con cui si vorrebbe circonfondere di “dicibilità” ciò che è, e rimane, indicibile.
Il senso ovvio di questo viluppo di violenza ansimante e isterica, è che un malato di cancro non si vota, perché è un vuoto a perdere. Un morto che cammina, da abbandonare al suo destino, meglio se in isolamento, così non ci si accorge nemmeno quando crepa.
E invece no. Avendo Morra formulato che “umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli”, siamo a posto: perché, cosa non può una parola di fronte ad un fatto, se a pronunciarla è il potere? Come se presentare una malattia come una colpa per chi la porta, e un difetto da schivare per chi la guarda, non fosse, esattamente, il modo più compiuto e peggiore di mancare ad ogni forma di rispetto umano. Grottesco è poi il soccorso ermeneutico: come quello leggibile ad as., sull’Huffington Post (confidiamo che il Direttore Mattia Feltri rilegga il redazionale): Morra “non ha messo in relazione il voto regionale con la malattia”. E cosa avrebbe fatto, di grazia? Non è chiaro nemmeno all’anonimo soccorritore che, infatti, si rifugia, accorgimento nell’accorgimento, in un “le parole di Morra non brillano certo per chiarezza, lasciando un discreto margine di ambiguità”. Ma se sono ambigue, perché allora il centrodestra, contestandole, avrebbe agito “distorcendo il senso delle parole”?
Perché conta buttarla in caciara permanente, il nostro Kaos in miniatura: il brodo primordiale di una comunità in cui tutto diviene insensato, possibile, anche quando è impossibile, giusto anche quando è ingiusto.
Dove basta evocare il drappo di un “nemico”, per insignirsi di virtù e di giustizia perfette, per mascherare una comune e nichilistica identità.