Dal lockdown al countdown.
Si potrebbe dire che la vicenda-Covid della Scuola, entro la più ampia e comune vicissitudine, stia racchiusa fra queste due parole dell’inglese-mondo.
Poco più di quindici giorni, e dovremmo ritrovarci tutti in classe. Pluralis civitatis, d’obbligo. Sappiamo che dieci milioni di persone, fra studenti, docenti, genitori, tate e nonni saranno direttamente ai nastri di partenza.
Ma dietro di loro, c’è tutta Italia. E non potrebbe che essere così. Essendo la scuola il Convitato di Pietra del ciclo produttivo. Il perno nascosto che regge i mille altri: senza del quale, tutto si bloccherebbe come neanche durante un terremoto.
Oggi, però, non intendo soffermarmi sui dati, sul Governo. Temo non mancherà occasione per tornarci.
Non sui “lavoratori fragili”: uomini e donne, o esplicitamente già interessate da una malattia, o, per ragioni di età, ritenute comunque a speciale rischio di contrarre il Covid. Nel 2019, su 730 mila insegnanti di ruolo, quelli con più di 54 anni erano oltre 300 mila, circa il 40% del totale; 170.000, oltre i 62, il 23% circa. A cui va aggiunto il personale ausiliario, in una proporzione anagrafico-sanitaria analoga.

Né mi soffermerò sugli 85.OOO nuovi docenti, che il Ministro Lucia Azzolina afferma capaci di costituire una sorta di Corpo Docente d’Emergenza; ma che Maddalena Gissi, segretaria della Cisl Scuola, nega possano essere assunti, se non in una quota minima, non oltre il 30%: giacché, nonostante il Ministero dell’Economia abbia garantito la provvista, mancano nelle graduatorie proprio le persone con le mansioni richieste (ad es., a Milano, non potranno essere assunti i 3000 insegnanti di sostegno previsti, perché non ci sono; come mancano docenti in materie scientifiche).
Solo ad un aspetto del problema, nell’incalzare di questa clessidra, vorremmo accennare, chiamandolo col suo nome: Eccesso Normativo.
Mascherine sì, mascherine, no. Certo che no: ma solo fino a sei anni; sì, oltre. No, stando al banco; sì, al primo movimento (a sette, otto, nove anni?). Mascherine trasparenti. Assembramenti vietati (in una scuola? Per cinque ore? Senza ricreazione? E come?). Lezioni, per i docenti ritenuti a rischio, a distanza dai primi banchi (ma Pino Turi, della Uil, ha dichiarato: “Non vedo altra soluzione che tenere i lavoratori fragili a casa mettendoli in aspettativa”). Per ogni divieto, una successione di decreti; per ogni decreto, una circolare esplicativa; per una circolare ministeriale, un contrappunto sindacale, una nota dei Presidi, un tatzebao-chat di un Gruppo Genitori.
Il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, pur (forse) non rendendosi conto dell’enormità delle sue parole, ha colto l’essenza della questione, dicendo: “Rischiamo che i docenti spendano più tempo a far rispettare le regole che a fare lezione. Sarà un arduo compito”. Giusto. E perché non la cestinate, allora, qualche norma? Magari esiste il marketing politico-inculturale dei divieti, e non si vuole perdere nemmeno un “cliente”?
Eccoci. “Le regole”. E torniamo al nostro iniziale proponimento. Quando sono troppe, non si rischia solo di sviare ciascuno, dal compito proprio: come avverrebbe trasformando i docenti in legioni di vigilantes; si rischia di peggio.
Si prepara L’anarchia Impotente, su uno sfondo pandemico.
Sicchè, quando sentiamo annunciare al Ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia: “Garantiamo sforzo immane”, così, come in un telegramma di un Generale sbruffone, ci corre un brivido lungo la schiena. Ancora?
Piuttosto che nell’orgia normativa, preferiamo confidare nelle persone. Nei docenti, prima di tutto; nella dedizione ai “loro bambini”, o “ragazzi”, che è tale realmente: a parte i casi ineliminabili di colpevole disaffezione. Nei genitori, che sanno quale sia la posta in gioco per i loro figli. Nelle famiglie, chiamate ad uno sforzo più corale e generoso del consueto. E in loro, i destinatari primi e ultimi di questa difficile ora: gli studenti.
Perché tutti insieme sappiano trovare un punto d’equilibrio, discernendo fra isteria e necessità, cavando la miriade di soluzioni “all’italiana”, che altro non è, se non basilare saggezza, un antico e sapiente tendere e allentare la corda: proprio di un popolo che di Sua Maestà La Norma ha misurato, nei secoli, imposture e impostori di ogni risma. Contro “l’eccesso di diritto”.
Un raffinato e pensoso teologo, Jacques Ellul, ha mirabilmente spiegato cos’è, e come va riequilibrato:
“Il diritto è indispensabile per la vita della società, ma rifugiarsi totalmente nel diritto è la morte per le relazioni umane: se ne negherebbe il calore, l’agile prontezza, la fluttuazione, indispensabili perché una società possa vivere, e non semplicemente funzionare”.
Noi confidiamo che l’Italia, smussando, aggiustando, offrendo la propria intelligenza quotidiana alla naturale ottusità della Norma, sappia mostrare, a cominciare dalla sua Scuola, che questa marea montante di “divietologi” e “divietomani” non avrà la meglio sulla nostra capacità di stare al mondo: che la prudenza si regola alla luce della ragione, non nel buio della paura.
Che vuole vivere, e non semplicemente funzionare. Perché la vita, da giusta misura, non diventi “uno sforzo immane”.