Un amico italoamericano, l’artista elettronico Remo Saraceni – inventore dei sensor che accendono le luci e del “pax piano” del film Big – mi ha chiesto di scrivere la storia della sua vita, da quando era bambino in Abruzzo, al tempo della Seconda guerra mondiale. Era la fine dell’estate 1943, i tedeschi retrocedevano e gli inglesi avanzavano ma i paesi venivano rasi al suolo dai bombardamenti degli alleati per stanare i tedeschi, i quali facevano continui eccidi di civili. Il suo paese ricevette l’ordine di evacuazione e con la famiglia Remo, che aveva nove anni, si diresse a piedi verso il fiume Sangro per attraversarlo e rifugiarsi presso le truppe del generale Montgomery. Durante il viaggio il padre, per distrarlo, gli narrava della Prima guerra mondiale, quando aveva combattuto insieme al fratello e ai cognati sull’altopiano del Carso tra Trieste e Gorizia.
“Mi pareva –mi ha raccontato Remo – di non essere rifugiato nella macchia delle colline abruzzesi, ma acquattato in trincea sull’altopiano brullo e pietroso al confine nord orientale dell’Italia per difendere la patria e bloccare l’invasione dello straniero che parlava sempre tedesco. Con gli occhi della mente vedevo mio padre guidare la carrozza trainata dai suoi cavalli carica di cannoni ricoperti dal tricolore. Alla fine della guerra suo fratello Giorgio era ritornato al paese con una medaglia d’argento ma non aveva più il cranio; ricordo che qualche volta mi faceva toccare quella massa morbida… Io assomigliavo come una goccia d’acqua a zio Tommaso, il fratello di mamma che non era tornato, mentre zio Vincenzo era ancora con noi ma, a causa di quella maledetta scheggia conficcata nel cervello, era come un bambino: spesso si perdeva nei campi e dovevamo andare a prenderlo nei dintorni dell’abbazia che distava un paio di chilometri dal nostro paesino di Fossacesia”.
Il presidente Sergio Mattarella dovrebbe spiegare alla Nazione perché 600 mila ragazzi italiani vennero mandati a combattere e morire sul Carso. E perché tanti tornarono senza il cervello! Dovrebbe spiegarlo alla luce di quello che si sta apprestando a fare il 13 luglio a Trieste, un atto grave e triste che offende i vivi e i morti: vuole consegnare al presidente della Slovenia, Borut Pahor, le chiavi di un enorme edificio in centro città che 100 anni fa ospitava il Narodni Dom, ossia la Casa del Popolo del Regno degli slavi. Forse al Quirinale si pensa: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato a dato, scurdammoce o’ passato”. Eh, no, caro presidente! La questione non si può chiudere quando ci sono ancora italiani che non hanno capito perché i loro cari sono stati sacrificati sul Carso. Allora glielo diciamo noi: per annettere al nostro Paese le regioni italiane del confine orientale, sotto il giogo austriaco: Istria, Fiume e Dalmazia. Questa era stata la promessa degli alleati all’Italia per farla entrare in guerra. Benché tra i vincitori, i nostri politici non seppero farsi valere alla conferenza di Parigi del 1919 e nel seguente trattato la maggior parte delle terre adriatiche fu invece annessa al neonato Regno dei serbi, croati e sloveni. I possidenti italiani furono espropriati e i loro nomi e cognomi slavizzati. Trieste fortunatamente finì in Italia, ma il Regno dei serbi la voleva a tutti i costi e, spalleggiato dalla minoranza slovena di Trieste, pose un centro di spionaggio nell’edificio Narodni Dom che ospitava l’hotel Balkan e un deposito di armi e bombe a mano. Nei giorni precedenti c’erano stati dei morti per mano slava e sembra che alcuni neofascisti abbiano poi dato fuoco al Nardni Dom, che non era una casa della cultura, come sostiene la minoranza slovena, ma appunto una polveriera, tanto che bruciò per tre giorni.
Il nostro presidente si è incontrato sei volte con il presidente sloveno a Roma, ha letto tutto ciò che gli storici e i giornalisti della minoranza slovena hanno scritto in testate italiane prestigiose e non ha interpellato la parte triestina, che considera fascista per il fatto che alla fine della seconda guerra mondiale a Trieste si sono rifugiati tutti gli esuli delle regioni della Costa Orientale che fuggivano all’avanzata del comunismo jugoslavo. Trieste è stata occupata per 40 giorni dai partigiani jugoslavi, che urlavano: “Trieste è nostra!” Era il 1945 a la guerra qui non era ancora finita e, se non fosse stato per il protettorato anglo-americano, Trieste sarebbe stata ceduta nel 1954, come l’Istria, alla Jugoslavia comunista.
Trieste si sente italiana ed è profondamente offesa che Mattarella si umili offrendo quelle chiavi al presidente sloveno. Semmai potevano essere date alla minoranza slovena di Trieste, la quale peraltro è già stata risarcita con una scuola e un teatro molti anni fa. Come se non bastasse si è fatta avanti la Croazia dicendo che vuole anche lei le chiavi, come erede del Regno slavo. Né Mattarella si preoccupa di chiedere le chiavi degli immobili delle nostre famiglie italiane fuggite dal comunismo jugoslavo. Ha chiesto solo che Pahor venga a rendere omaggio alla foiba di Basovizza dove furono gettati tanti civili italiani dai partigiani jugoslavi. Pahor ha allora preteso che Mattarella renda omaggio al monumento di quattro attentatori slavi, fucilati dall’esercito italiano nel 1930. Ma il partito socialedemocratico del presidente sloveno Pahor gli ha fatto sapere che non si deve umiliare andando alla foiba di Basovizza perché non venne buttato vivo nessun italiano… I libri di testo sloveni non scrivono che l’Istria ha fatto parte della Repubblica di Venezia per 400 anni e il leone di San Marco è chiamato “il gatto sloveno della pace”. Così la storia italiana delle nostre terre è stata cancellata.
Come si può trattare con simili mistificatori della storia? Si rende conto Mattarella con chi ha a che fare? Nessuno si potrà avvicinare a meno di un chilometro dai presidenti: si temono manifestazioni da parte dei triestini… E noi comunque ci stiamo organizzando. Perché come ho scritto su Libero: “La reciprocità si basa sul rispetto e la pace sulla verità storica.
Il 13 luglio i presidenti si laveranno chimicamente le mani, dopo essersele strette? Non vale, se vale la memoria dei nostri morti”.