Si “riparte”. Così si sente dire. Così recita la parola comune. Così scandisce il gergo delle conferenze stampa, “traduttore” di ponderosi e spesso illeggibili Decreti.
Ogni affermato o creduto “Nuovo Inizio”, però, rischia di scontare una maggiore o minore carica illusoria. Così, il Covid-19, che è la superficie su cui infezione, morte, paura, sono calati a solcare la nostra pur relativa serenità, il nostro ritmo, suscita l’impressione di una radicale separatezza, fra un “prima” e un “dopo”. Ma appena ci si sofferma sulle stratificazioni venute alla luce in forza di quello squarcio, ecco che il colore, la consistenza e gli strati visibili di quel “terreno”, subito ci richiamano la precedente unitaria conformazione, a torto ritenuta interrotta.
Consideriamo la faccenda della responsabilità dei Datori di lavoro per l’infezione dei dipendenti. Non affatichiamoci in dispute verniciate di giuridico. Qui si devono cogliere accumuli storico-politici, scarico di forze, pressioni. Stratificazioni. E leggere quello che ci dicono e ci prospettano. Non ci interessa l’agrimensore, ma il geologo.
Non stabilire se l’Istituto Nazionale per gli Infortuni sul Lavoro, qualificando “infortunio sul lavoro” il contagio sorto anche “in occasione” della prestazione lavorativa, e poi precisando che il riconoscimento del contagio come infortunio non è per sè sufficiente a radicare una colpa penale o civile sull’imprenditore, abbia fatto bene o male. Il linguaggio della superficie ci dice che poteva, quanto alla qualificazione lavoristica del Covid. Ma chiederci perché è sorto “il caso”. Cosa di non-ovvio, si cela nell’apparente ovvio. Questo impone uno sguardo “geologico”.
Certo che il giudizio del Tribunale è autonomo. E che occorre accertare il dolo o la colpa. Bella scoperta. Ma la “precisazione” (con nota dello scorso 15 Maggio) e sul contenuto della Circolare 13/2020, redatta ad Aprile dall’INAIL, a ben vedere, non attiene alla superficie giuridica.
Se scrutiamo meglio, scorgiamo masse profonde. Potenze. Potere. Miti Fondativi. I “poveri che hanno dato”, i “ricchi che hanno preso”.
Pare allora che antichi rancori, perenni conflitti, fantasmi, stiano risorgendo all’ombra del Covid, della sua gestione politica. E che sia già stato deciso chi debba andare sommerso alla prima, decisiva e micidiale ondata. Tuttavia, senza dirlo. Senza rivendicarlo. Solo lasciando che la prima linea rimanga impelagata in un reticolo di divieti, sanzioni, minacce, protocolli intimidatori: “condivisi” da “vertici” associativo-burocratici scarsamente “leggibili” dalla base; e che così, come una preda nella pània, la piccola e media impresa vada ad uccidersi col suo stesso movimento; che ogni tentativo di liberarsi la invischi sempre di più alla mortifera sostanza collosa; che la sua stessa speranza la consumi, e tanto più inesorabilmente, quanto più l’oppressione, la disperazione, accrescano l’impotente convulsione dell’agonìa.
Dividere, separare, fomentare conflitti, è sempre indirizzo politicamente misero; ma è totalmente immorale durante la tempesta, e ciascuno, da un nocchiero degno del nome, dovrebbe essere fatto tendere all’altro: come ad un compagno, ad un amico.
I “ricchi”, i “poveri”: quando simili nomi si fanno balenare esclusivamente come il capriccio della sorte, o la macchinazione di una onnivalente ingiustizia, essi, fra i pur numerosi possibili conflitti, diventano il conflitto peggiore: il più potenzialmente erosivo di qualsiasi compagine sociale.
Quella minaccia, e la successiva precisazione, ci hanno posto di fronte a franosissimi strati geologici. Ma chi sarebbero, gli uni; chi, gli altri?
Da un lato, lungo l’intera scala dal maggiore al minore, qualsiasi percettore di reddito da lavoro dipendente, è stato giustamente garantito (smart working, che è pur sempre un home working, con criteri di controllo rimasti, diciamo, piuttosto fiduciari, specie nel settore pubblico; Cassa Integrazione in deroga; divieto di licenziamento; tutela INAIL e ordinaria, di cui proprio si discute tanto clamorosamente).
Dall’altro, il reddito “diverso” da lavoro dipendente: a cui sono stati destinati 600/800 Euro. A cui si presenta l’induzione di maggiori e più agevoli indebitamenti, anzichè restituzioni fiscali, gli unici lenimenti efficaci, cioè, capaci di dar conto di un mutilato ciclo produttivo, di casse vuote, di nessun introito: senza dei quali, la mano dello Stato si svela usuraria, pronuba e complice di omologhe sopraffazioni; le stesse, la cui “lotta” è posta a giustificazione di sontuose e garantitissime carriere. E tutto questo, al tempo stesso in cui vengono rese intricate, larvatamente ostili, le stesse attività generative di quel reddito (“regole”, “distanze” ecc). “Ricostruite” più come fonte di contagio che come fonte di ricchezza.
Fra le zolle riemerse, pertanto, torna ad insinuarsi una certa Italia con l’anello al naso; affatto priva di qualsiasi memoria nazionale, sorta dagli equivoci di un “antiglobalismo” onirico, pigro, e secessivo rispetto ad ogni responsabilità “di sistema” (come fu, invece, l’opposizione attiva e produttiva condotta dal movimento operaio e contadino, per intenderci); irresponsabilmente incurante che noi, o siamo rinascimentali, cioè, piccoli e “bottegai”, o semplicemente, non siamo: quando cuciamo una tela, o conciamo una pelle, o levighiamo un legno, o costruiamo il nerbo elettronico, meccanico, chimico, di maggiori e altrui produzioni; quando disegnamo una casa, un ponte, un grande o piccolo manufatto; quando inventiamo un piatto, persino quando prepariamo un caffè, noi lo facciamo da “bottegai”, da sapienti artigiani del piccolo gesto, del prezioso che non si vede ma si intravede, della bellezza impressa pure sul display di un vogatore. In una dimensione in cui il “padrone” respira la stessa aria, rischia lo stesso buio, sogna la stessa luce del “dipendente” (e a cui ha magari anticipato la Cig non ancora versata dall’Ente erogatore).
Questa Italia esiste. Ma anche l’altra, che insuffla rivalse “storiche” ottusamente telluriche.