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May 6, 2020
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Il caso Di Matteo vs Bonafede e i mafiosi scarcerati: epitome dell’autoritarismo

Un programma televisivo con un conduttore pronto ad una chiamata adatta alla "suspence", che dice tanto senza dire nulla e "svelando" tutto...

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Il caso Di Matteo vs Bonafede e i mafiosi scarcerati: epitome dell’autoritarismo

Massimo Giletti durante la sua trasmissione (Immagine da youtube)

Time: 7 mins read

“Sono il figlio naturale di una coppia diabolica, il fascismo e lo stalinismo…”. Da quando è venuta alle cronache la querelle Di Matteo/Bonafede, quelle parole hanno preso a ronzarmi nelle orecchie. Costituiscono, i più cresciutelli fra noi lo ricorderanno, l’incipit di un pamphlet che molto discusse e molto fu discusso, scritto da Bernard-Henri Levi: “La barbarie dal volto umano”. J’accuse della Nuova Sinistra verso la Vecchia, a partire da Stalin, e dai suoi olocausti, fino a quel ricongiungimento storico-politico-filosofico “di coppia”.

Ma per situarci subito fra le più correnti angustie annunciate dai presenti prim’attori (lasciando sullo sfondo, ma visibili, quelle più solenni), basterá qui sostituirne l’intestazione, e mantenere la coppia: Mafia e Antimafia. 

Rimanendo libera la scelta se riferire la Mafia al Fascismo e l’Antimafia allo Stalinismo, o viceversa. Comunque, avremo (abbiamo) una “coppia diabolica”. 

Di cui dovrebbero sentirsi figli, tormentandosi per riscattare una loro più civile e umana autonomia, quanti, almeno a far data dalla spiegazione di Sciascia (Gennaio 1987), sono venuti crescendo all’ombra di questa nuova “coppia diabolica”. “Ombra”, è qui parola che, con spettrale puntualità, riassume il compendio di vuoto civile, e di irrazionalismo militante, che, rispettivamente, un Ministro della Repubblica e un alto magistrato e ora Consigliere superiore della Magistratura, hanno messo in scena. Non da soli.

Riassumiamo brevemente.

Impazza il Coronavirus, anche in carcere. Alcuni esseri umani, detenuti secondo il regime speciale del noto art. 41 bis O.P., chiedono e ottengono di poter continuare l’espiazione della pena nel domicilio, stante età e condizioni di salute (Franco Bonura e Pasquale Zagaria, i nomi-bandiera presto additati).

Un noto e maturo intrattenitore televisivo, Massimo Giletti (in gioventù, pare sia stato un giornalista), dalla sua personale tribuna “lancia lo scandalo”: del resto, conformemente al piano industrale del suo Editore (“format” è parola piuttosto anodina); manifesta ai suoi “spettatori” (la figliolanza diabolica) di “vergognarsi di essere italiano”, ed esibisce altri accorgimenti mestieranti, per eccitare e sovraeccitare. E per suscitare violenza: nei pensieri, nei sentimenti, per pretendere liquidazioni (fascismo e stalinismo, mafia e antimafia); sciorina su maxischermo liste di “boss usciti dal carcere”, e di altri che hanno chiesto analoghi provvedimenti (secondo Legge e Costituzione). Fa accuratamente il suo “dovere”.

Riecco servito il Cane Controrivoluzionario, il Lurido Sottouomo. L’Untermensch, per tutti.

Il Direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, dott. Francesco Basentini, si dimette. Perché (si afferma, anzi, si urla) non avendo predisposto misure idonee a prevenire che il Coronavirus fosse “pretesto” per i contestati provvedimenti (sembrano suggerire la tesi del “pretesto”, tra gli altri, l’On. Claudio Fava e il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando), non può che essere “colpevole”, la sua parte, di quelle scarcerazioni (disposte però, s’intende, dalla Magistratura di Sorveglianza: legittimamente, sia ripetuto).

Si apre la successione; ma nell’immediato, quale Vice del Dipartimento momentaneamente acefalo, è nominato il dott. Roberto Tartaglia, per dieci anni alla DDA di Palermo, e Pubblico Ministero nel Processo cd Trattativa (ci stiamo gradualmente avvicinando al bandolo della matassa); al quale, eminentemente, si lega il nome del Dott. Di Matteo. Qualcuno pensa (e forse anche lo stesso Di Matteo) che per la direzione si sceglierà lui; tuttavia, altri nomi vengono considerati; d’altra parte, contrariamente a talune ipotizzate “ovvie aspettative”, era tutt’altro che conseguente la nomina di Di Matteo, dopo quella di Tartaglia, risultando “la casella Trattativa” già assegnata.

Il magistrato Nino Di Matteo durante una fase di un processo (Immagine da Youtube)

Ed in effetti, viene nominato il dott. Dino Petralia. Il giorno dopo, torna in scena l’Intrattenitore. Durante lo spettacolo, arriva una telefonata. In diretta. Suspence. Silenzio rarefatto. E il dott. Di Matteo dice. E non dice. 

Dice che due anni prima, quando Bonafede aveva nominato l’appena dimesso Basentini, Basentini non era stato, come dire, un designato di prima scelta; ma di seconda. La prima scelta era stato lui, Di Matteo. Il Ministro, anzi, gli aveva offerto di poter scegliere: o il DAP o la Direzione Generale degli affari penali. Si era preso 48 ore per decidere. Ma già il giorno dopo, si era recato in Via Arenula, per accettare. Il DAP. Solo che il DAP, nel rapido frattempo, era già stato assegnato a Basentini. C’era però ancora la Direzione degli affari penali. Si prende un altro giorno, e poi comunica di non voler accettare. Perché? 

E qui cominciano i “non dice”. Ancora parlando con l’Intrattenitore (e con qualche altro milione di persone “in diretta”: le “coppie diaboliche”, ricordiamolo, amano le folle), Di Matteo ricorda che negli stessi giorni in cui Bonafede gli aveva fatto quella proposta, il Gruppo Operativo Mobile (GOM) della Polizia Penitenziaria, aveva redatto una nota; nella quale si dava atto che l’ipotesi della nomina di Di Matteo alla direzione del DAP, aveva suscitato diffusi malumori fra i detenuti ex art. 41 bis. 

Una protesta, su cui ruota molto di ciò che il dott. Di Matteo non dice, che tuttavia non ha nulla di misterioso, per lo meno nelle intenzioni dei detenuti; infatti, riferisce ancora il GOM, questi avrebbero affermato: “dobbiamo metterci a rapporto col magistrato di sorveglianza per protestare contro questa eventualità”. Mettersi “a rapporto” significa mettere a verbale: nero su bianco. Nulla di meno misterioso e nulla di meno nascostamente premeditato, che lasciare una formale sottoscrizione in calce ad una dichiarazione. Sulla base di questo rapporto, emergeva un ordinario malumore, che nel merito si può ovviamente non condividere, ma così poco segreto, da voler essere consegnato dagli stessi interessati alla istituzionale audizione della Magistratura di Sorveglianza. Impervio potervi erigere trame occulte.

Non dice: perchè il dott. Di Matteo, racconta l’episodio, ma sta bene attento a non definire causalità: “Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore”. 

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nell’illustrazione di Antonella Martino

Sembra un “fatto”. Ma è una congettura. E lo si capisce quando aggiunge: “Se chiamarmi e poi cambiare idea è stata una sua valutazione autonoma, non lo so”. 

Nel giro di una frase, una scelta, discutibile come ogni scelta (o per il contenuto, o per i modi, o per i tempi), muta; e diviene la porta di un sospetto. Sospetto grave e moralmente distruttivo. Si evoca un convitato di pietra. Perciò, da un lato, il dott. Di Matteo “dice” il “fatto”; ma, dall’altro, “non dice” quella che, a suo avviso, è la ragione del “fatto”: se sia o meno frutto di una “valutazione autonoma”.

Ma chi? E, soprattutto, perchè, renderebbero questa scelta, forse (“non lo so”), non autonoma?

È presto detto, e siamo a ieri ; giacchè, il “non dice”, in realtà, ora sta dicendo: “magari uno stop degli alleati o da altri…”. Dagli Alleati che, nel 2018 era La Lega. O da altri”: magari l’Alleato degli Alleati. Lui.

E “tutto si aggiusta”. Appena consumata “la rottura” fra il magistrato e il ministro, infatti, la “figliolanza diabolica” si era sentita smarrita: per tutti, Marco Travaglio, che non ha l’allure dell’Intrattenitore, né dispone della sufficiente raffinatezza per situarsi fra il dire e il non dire (al più, taglia e ricuce maldestramente un virgolettato, anche da verbale), era uscito con un pedestre “È un Colossale equivoco”. Dabbenaggini da eccesso di zelo. Lo stesso Di Matteo, a La Stampa, precisa: “Per me è stato un episodio indimenticabile e non c’è nessun equivoco”. Grama figura di un figuro gramo.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere se la trama dei “dico e non dico” regga. Se sia plausibile che una simile performance, sia esclusivamente dovuta ad un “irrefrenabile bisogno di raccontare i fatti” , seppure non così “irrefrenabile”, da non potere essere frenato per due anni; se sia decentemente ammissibile che un Ministro, nato e cresciuto in un Movimento pasturato dal sospetto, oggi si dica “Esterrefatto”, e parli persino di “ipotesi infondata e infamante”, dopo avere, infondatamente e impunemente, infamato l’universo mondo; se sia credibile che il principale alleato del suddetto Movimento, per bocca di un suo ex Ministro della Giustizia (Andrea Orlando) affermi: “sarebbe gravissimo se un ministro si dovesse dimettere per i sospetti di un magistrato” , avendo, lo stesso PD, anche in un recente passato, praticato una simile arte come nulla fosse (Guidi, Lupi); se sia serio, che i due maggiori partiti di opposizione, dando seguito alla predetta arte, le dimissioni si siano affrettati a chiedere.

No: tutto questo non è plausibile, decentemente ammissibile, serio. Ma la trama, regge? La trama a cui tutti costoro si sono avvinghiati, ciascuno secondo il suo spartitino, per dire quanto siano stati e siano chini e proni, rispetto ai “Narratori”? Questa trama, regge? 

Purtroppo, regge. Perché non è una trama. È una prepotenza fatta alla ragione, e si regge proprio su questo suo prepotere.

Il prepotere di poter immaginare un fondo oscuro, una mitologia negativa nella quale la Repubblica sarebbe inestricabilmente avvolta; dove, non il limite dell’umana ragionevolezza; non le assoluzioni, anche definitive, che quel fondo hanno escluso (la ridetta cd Trattativa); non le vite di uomini, a cui si dovrebbe solo gratitudine, per aver agito, su territori impervi, quando pochi vollero entrarvi (Contrada); che erano amici, oltre che collaboratori preziosi e unici di Falcone e Borsellino (Mori, e altri Ufficiali del ROS); non le vite di uomini (Mannino), fatte simbolicamente consumare alla clessidra sadica e feroce di un’Accusa, ancora insaziabile dopo 29 anni di ininterrotte sofferenze processuali, e di assoluzioni metodicamente vanificate. 

Non il diritto; non la Giustizia; non il bene della comunità vengono fatti valere.

Ma l’autolegittimazione; la dismisura; la diseducazione morale e civile, nella suprema forma e intensità di una ingiustizia infinita. 

Fascismo, Stalinismo, Mafia, Antimafia. Coppie Diaboliche.

Allora, però, e sempre, contro ogni aberrazione culturale, umana, politica (questo è, essenzialmente, “Il Diabolico”) c’è la Libertà. Ci sono gli uomini liberi e forti. A beneficio di tutti. Persino di quelli che vorrebbero rieducarli a pane e manette. 

E, per fortuna, i Liberi e i Forti, sono e rimarranno tutta un’altra cosa. Tutta un’altra storia.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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