“Qousque tandem…?”, abbiamo imparato da giovani, è un movimento retorico perentorio, secco: che introduce un giudizio venato di collera, sostenuto da una conoscenza che si presenta aperta alla sfida, disponibile a raccogliere la risposta dell’avversario, ma che, in effetti, traduce ed impugna una conoscenza già conseguita. “Fino a quando…?”.
E Catilina, messo di fronte a quella folgore di sentimento e di parole, non potrà realmente rispondere nulla, per placare il fiume dell’impazienza; per frenare l’impeto politico e civile con cui ogni pazienza, ogni attesa fin lì protratte, vengono travolte da quel celebre attacco di Cicerone (quasi un mimo precorritore dell’altrettanto monumentale incipit, concepito da Beethoven per la sua V Sinfonia): “Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?” (“Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”). Ma la domanda-giudizio è tutta in quella formidabile, rapsodica “ouverture a due parole”.
Mi si sono venute affastellando simili suggestioni, al leggere una dichiarazione di Attilio Fontana, Governatore della Lombardia, resa venerdì a proposito del drammatico svolgimento Covid-19/Case di Riposo per Anziani (RSA, Residenze Sanitarie Assistenziali, in una di quelle sigle, in una di quelle “traduzioni”, che costellano una corrente neo-lingua burocratico-alienata, in generale escogitata per non far intendere nulla, o molto poco, per lo meno secondo una comprensione immediata e piana: qui, in particolare, che si tratta di luoghi per esseri umani a lungo vissuti accanto a noi; e sembra una cosetta, e invece è una importantissima questione politica e democratica, questa del linguaggio criptico-burocratico, come sempre con il retto uso delle parole, d’altra parte: perciò, Case di Riposo per Anziani).
Dicevo della dichiarazione: “Sono stati i nostri tecnici, che ci hanno fatto la proposta e valutato le condizioni delle singole case di riposo, e noi ci siamo adeguati…la responabilità è dell’Ats…” (altra sigla-geroglifico, che sta per Agenzie di tutela della Salute, e prima erano A.S.L. e prima ancora U.S.L.; pur’esse sigle, ma consolidate dall’uso e dall’abuso, e così almeno divenute intellegibili: perciò, sono state di nuovo cambiate: e si dovrebbe forse tentare una correlazione fra il tempo -1970- in cui si diceva più semplicemente “Ospedale”, e c’erano in Italia 10.6 posti-letto per mille abitanti, e il “tempo delle sigle sanitarie”, nel quale gradatamente, di sigla in sigla, si è giunti agli odierni 3.4 post-letto per mille abitanti: e trarne qualche spunto, o magari solo qualche curiosità analitica storico-politica).
Per la verità, rispetto alla tragedia mondiale, a quella italiana entro la prima, e a quella lombarda entro la seconda, io non ho assunto una disposizione analoga a quella ultimativa, simboleggiata dell’illustre “attacco”.
Sia perché, più cresce la catastrofe sanitaria, economica e sociale, meno mi sento in diritto di tagliare, con adeguata serenità di pensiero e di analisi, una simile realtà a quarti di bue; e di ripartire il risultato di quella che, pertanto, troppo semplificata, rischierebbe seriamente di risultare solo macelleria pseudo-interpretativa (né, davvero, si può dire definito ogni aspetto controverso, nella intersezione fra Potere Centrale e Potere Locale).
Sia perché, se monta un’accusa generale, è buona misura quella di tendere l’orecchio all’accusato e, comunque, di preservare “i luoghi deputati” al giudizio (tribunali o schede elettorali che siano, secondo competenze non sempre distinte, per la verità), da ogni intempestiva, incontenuta e impropria “sommarietà” (che nei confronti della Giunta Fontana si sono spinte fino ad una digital-moltitudinaria “richiesta di commissariamento”).
Senonché, c’è una linea che quelle parole di Fontana hanno attraversato: e che, pertanto, credo debbano indurre, in ciascun osservatore che non voglia abdicare alla “intelligenza delle cose semplici”, cioè, alla sua coscienza, qualcosa di simile a quella domanda.
La linea è quella della Responsabilità Politica. Fontana ha rivendicato (si potrebbe dire: teorizzato, se non ostassero pochezza di uomini e impellenza di cose) la Irresponsabilità Politica come principio. Non il “giusto tempo” per discutere della responsabilità: ma il “nessun tempo della responsabilità”.
Così precipitando sul piano della irrealtà come difesa, della doppiezza come schermo per un volto divenuto inguardabile.
Il punto, dirimente, è che “I Tecnici” non esistono, in quanto tali: solo sono un arnese della fabbriceria politica. Ci mancherebbe altro.
Fontana, come rappresentante di un consenso democraticamente formato ed espresso, avrebbe dovuto fare esattamente l’opposto di quello che ha fatto: avrebbe dovuto ribadire la paternità della scelta, “portare a sè” la responsabilità della decisione: “assumerla”. E con questa, affrontare il giudizio politico sulle conseguenze di quella decisione. Da uomo. E affrontarlo, perció, con trepidazione, con lacerante inquietudine, con sanguinante compassione. Così misurandosi con la dimensione “personale” dell’agire umano. La prima, e l’unica, nell’incedere della Morte.
E invece, se possibile, ha amplificato quella pretesa di irresponsabilità universale, fino a soglie di ineffabile evanescenza morale: “Aspetto con estrema serenità l’esito” (delle ispezioni ministerali).
Non sappiamo davvero, con quei numeri, con quei dubbi, con quelle scelte, dove e come Fontana possa frequentare una dimensione etica e psicologica di “estrema serenità”. Se non ci fosse quella penale (e qui l’augurio è sempre che non ci sia, e comunque, fino a sentenza definitiva, sia confermato che non c’è); se non ci fosse quella politica (e già questa pare, invece, assai più incombente e definita); se non ci fosse quella genericamente umana (e giudichi chi vuole); ecco, ci sarebbe comunque una responsabilità “fondamentale” che dovrebbe impedire, scacciare con la furia di un’Erinne, ogni pretesa di “serenità”, estrema o mediana che sia: ed è la responsabilità dei figli verso i padri, di chi ha ricevuto verso chi ha dato, del dopo verso il prima che lo ha reso possibile.
Ad essere falcidiati come in nessun altro luogo al mondo; uno dopo l’altro, soffocati dalla solitudine non meno che dal morbo, e anzi a questo offerti da quella, come in un immondo olocausto, sono stati e sono i nostri Padri. I Nonni dei nostri figli, già tristemente accantonati, secondo una “Necessità Sociale” piuttosto algida e nichilista, ma così finiti ancora peggio.
È sembrato che, giunto il momento della stretta, dalle nostre istituzioni, dalla nostra “società civile”, a cristallizzare una già indebilita postura socio-culturale, col silenzio, con l’ambiguità, con la viltà dello schermo burocratico, si sia levato un cupo e infernale “inno alla morte”.
Non ci può essere “serenità”, di fronte a tanto: solo un rabberciato velo all’impudenza, all’arroganza, alla radicale inaffidabilità etica.
E allora, se siamo a questo, “Quousque tandem…?”.