“Ho il voltastomaco”. Lo ha dichiarato stamattina l’On. Giorgia Meloni. Stava commentando il coevo arresto di Roberto Rosso, Assessore nella Regione Piemonte, del suo partito. La custodia cautelare in carcere a cui è stato sottoposto registrerebbe un “voto di scambio”, del tipo “politico-mafioso”. ‘Ndrangheta in Piemonte, l’epigrafe.
Ad articolare il piano biologico-espressivo, Meloni ha poi aggiunto: “Mi auguro dal profondo del cuore che dimostri la sua innocenza”. Articola, ma non attenua; anzi, aggrava: “Rosso è da considerarsi ufficialmente fuori da Fd’I”.
Abbiamo qui delineati i caratteri della democrazia politica, quali sono stati scolpiti dalla lunga azione fanatizzante promossa dalla Pedagogia Neoinquisitoria. Meloni come Di Maio, come Bonafede, come Flores d’Arcais. E viceversa.
Questi caratteri sono il servilismo culturale, la viltà, la violenza istituzionale.
Il servilismo culturale. La democrazia politica, secondo questa pedagogia, deve disconoscere, allontanare chiunque sia attinto da un’accusa. Ancora Meloni: “L’accusa più infamante di tutte: voto di scambio politico-mafioso”. Non, dunque, “un’accusa infamante”, che già sarebbe posizione genuflessa, in quanto un’accusa è solo un’ipotesi: e come potrebbe, un’ipotesi, essere per sè “infamante”? Ma peggio: “la più infamante”.
Perciò, un’accusa può solo graduare la sua potenza distruttiva, talvolta maggiore, talaltra minore: ma sempre e comunque capace di consegnare alla pubblica degradazione, alla perdita della “buona fama”, al pubblico bando. Non è una genuflessione al Pulpito Maggiore: è una prosternazione. La democrazia politica incarnata in queste posture è un servo prono e cupamente salmodiante.
La viltà. Si capisce che formazioni politiche così asservite non abbiano spirito, idee, dimensione gratuita dell’essere. Ma c’è una libidine dell’abbandono, in quel “voltastomaco”, che tradisce un “di più”, e, anzi, un “di meno”; e si appaia, come in un comune giogo bovino, agli abissi di un cuore schiavo colto in un lugubre: “dimostri la sua innocenza”.
Si offre, dunque, senza pudore, senza ritegno, il misero contrabbando di uno sputo alla Costituzione, come mezzo per giustificare la fuga, spalle che si voltano, occhi che si negano.
Che ne sa, Meloni, della “innocenza” di Roberto Rosso, se non si cura nemmeno di rammentare che non essa, l’innocenza, ma la colpevolezza, il suo contrario, va dimostrata?
Che ne sa, di democrazia, quando la sua unica urgenza risulta correre ad offrire la sua manina plaudente alla bestemmia sulla prima e maggiore Tutela della Libertà?
Che ne sa, se tributa una vacuità trombonesca all’oscenità di un rito blasfemo, un sabbah con plurimi officianti, consumato sull’art. 27 della Costituzione che quella Tutela racchiude?
La violenza istituzionale. Ma cos’è, questo “scambio politico-mafioso”? Nella sua effettiva dimensione, nel suo concreto impiego, riesce un’invenzione, una metafora insensata, uno spot tendenzioso, congegnati per accantonare e liquidare le innumerevoli variazioni di una vita libera; e le connesse gradualità di valutazione, che un intimo rispetto verso la ricerca del consenso democratico, necessariamente postulerebbero ed esigerebbero.
Dice: ha dato soldi, a fronte della “promessa di voti”. Ad un “membro”, un “componente”, “un personaggio”, e così via.
E il gioco è fatto. Perché una fattispecie incriminatrice così costruita è un inganno che si autogenera e si autogiustifica.
Sappiamo, siamo messi in condizione di distinguere, una volta configurato il Nome del Male, la vanteria, lo sbruffone “che qui comando io”? O il tramestio infimo di una maniera solo affannosamente accattona? O la movenza di un banale raggiro, infiocchettato da pose studiatamente indurite?
Sappiamo come trarre una “promessa di voti”, dalla vaporosità dell’intenzione, e farne materia intellegibile, e non trastullo di un’arbitraria intuizione? Sappiamo, o anche soltanto supponiamo, quale sia la reale pasta di questi “membri”, “componenti”, “personaggi”? No. Nessuno lo sa.
Nelle materie del “peccato per contatto”, antiche e immarcescibili, opera un ordito, un meccanismo mentale, tanto rozzo quanto efficace.
Si attinge, per induzione e suggestione, dalla sempre duttile tela immaginativa: al tempo nostro, cinematografica o narrativa. Si può così dare spazio al fiabesco, alla configurazione di un orco senza tempo, fisso e immutabile nella sua totale malvagità. Venature etnico-territoriali arricchiscono oggi questi pastiches paranormativi: sintesi aggiornate e pret à porter di sempiterni e terribili irrazionalismi. Richiamato questo convitato immaginario, latente ma pronto alla bisogna, la saldatura col “reale” diviene quasi spontanea: vedrete quello che si vuole vediate.
I nomi, i soprannomi, le ascendenze familiari, gerghi ammiccanti come curiosità esotiche, tutto un corredo di evocazioni similantropologiche, lungamente proposto e riproposto; un’accozzaglia di deteriore sociologismo, di vaniloquio saccente e autoreferenziale, andatosi stratificando da quasi trent’anni (ma il suo alfabeto è plurisecolare), di convegno in convegno, di intervista in intervista, di Commissione Parlamentare in Ufficio Legislativo, tutti insieme radunati, chiuderanno in una silloge velenosamente blindata la vostra facoltà di pensare. E avrete “lo scambio”: l’irrealtà monolitica vittoriosa e dominante sulla varia, mutevole, multiforme realtà della vita.
E per i riottosi, aleggia la minaccia che criticare, dubitare, equivale a favorire, a condividere: interessi, trame, peccati.
Tutto è, deve essere, come quella pedagogia impone.
Questa, al suo apogeo sulfureo è la violenza più violenta a cui può essere soggiogata la libertà delle istituzioni democratiche, e della società che le anima.
In tanto parlare (e talvolta anche straparlare) di fascismo, di antifascismo, potrebbe rivelarsi una proverbiale astuzia della Ragione, aver suggellato una così smaccata espressione di aderenza al Dogma Giudiziario, sotto insegne tanto ricche di memorie infaustamente patrie.
Magari, persino un giovanile e gaio antifascismo potrebbe trovarlo di un certo interesse.