Intervenendo a Davos, il primo ministro italiano Giuseppe Conte, facendo il verso alla celebre frase di Abraham Lincoln, pietra d’angolo della democrazia statunitense, ha detto che c’è bisogno di una “Ue del popolo, fatta dal popolo e per il popolo”, chiedendo “un nuovo umanesimo” centrato sulle persone, che sappia dare loro fiducia nel futuro.
Il drammaturgo Bertolt Brecht, di fronte all’uso demagogico che i regimi comunisti facevano della parola popolo, scrisse: “Avviso del governo: il popolo ci ha deluso. Se non farà il suo dovere, il governo lo scioglierà e ne eleggerà un altro”. E, in occasione dei moti operai dell’estate 1953 e della brutale risposta sovietica a Berlino e in altre città: “Quando il popolo sbaglia occorre eleggerne un altro”. Ambedue le espressioni ci avvertono sui rischi della democrazia comunista ma anche populista, perché ambedue negatrici delle intermediazioni e dei meccanismi indiretti che filtrano il rapporto tra potere e popolo, rappresentando e difendendo le prerogative del secondo nei confronti del primo attraverso i parlamenti proporzionali.
Le parole del primo ministro populista e l’uso che fa del termine “popolo” richiamano il dibattito che, in questi giorni, si è sviluppato in Italia, per via del centenario dell’appello con il quale nel gennaio 1919 don Luigi Sturzo, con altri, fondava, il Partito Popolare Italiano.
Quell’atto metteva fine alla lunga stagione del non expedit vaticano, dichiarato dopo la presa di Roma da parte del neonato regno d’Italia. In quel mezzo secolo, lunghissimo per i cattolici, divisi tra amor di patria e fedeltà al papa, chi, tra di essi aveva voluto impegnarsi in politica, aveva incontrato non poche difficoltà obiettive, e irrisolvibili conflitti di coscienza. In particolare ciò era accaduto dopo lo stimolo che ai cattolici era venuto da Rerum Novarum di Leone XIII del 1891, una chiamata all’impegno sulla questione sociale, in particolare ad intervenire per riequilibrare il rapporto tra capitale e lavoro.
Il concetto di “popolo”, in quel contesto, si presentava come questione chiave. Né era casuale che Sturzo, e la pattuglia di intellettuali, politici e attivisti che a lui facevano riferimento, scegliessero di caratterizzare proprio su quel nome la natura del soggetto politico al quale davano vita. Nel linguaggio chiesastico, “popolo di Dio” sta per comunità di fedeli in cammino verso la salvezza sotto la guida dei pastori. Nel linguaggio politico dei cattolici, da allora in poi, il termine popolo identificherà “tutti gli uomini liberi e forti” come scrive Sturzo nell’appello fondativo del 18 gennaio 1919, che cammineranno dentro le istituzioni per riformare la società, e il rapporto dello stato con essa, in direzione di uno stato “veramente popolare”. Il prete siciliano, per questa pretesa, sarebbe stato chiamato da taluni “socialista”, e costretto agli esili di Londra e Stati Uniti, dopo il delitto Matteotti e l’Aventino, quando il realista ma tragico connubio tra Vaticano e fascismo avrebbe condotto ai reciproci vantaggi dei patti Lateranensi ma anche all’instaurazione definitiva del regime liberticida e antipopolare di Mussolini. Il popolarismo “ufficiale” sarebbe finito nelle secche del collaborazionismo, mentre quello originale si sarebbe espresso nella clandestinità, prima di prendere le armi nella resistenza.
Si davano due popoli in quell’Italia dell’opposizione al fascismo nascente, ed erano uniti da molte cose, pur militando uno sotto la bandiera bianca e gialla della chiesa, l’altro sotto la bandiera rossa del socialismo. A distanza di pochi anni, di visibile, ci sarebbe stato un unico popolo italiano in camicia nera. Leggendo oggi l’appello, ci si chiede ancora perché Sturzo, forte del 20,6% di voti delle elezioni del novembre 1919, rifiutasse l’alleanza con i socialisti opponendosi al ritorno di Giolitti al governo e preferendogli quel Luigi Facta che, a qualche mese di distanza dall’incarico del 26 febbraio 1922, si sarebbe calato le braghe davanti al manipolo di scalmanati vocianti (e manganellanti) alle porte di Roma.
Nell’appello, Sturzo scrive della necessità di perseguire “gli ideali di giustizia e libertà” (toh! proprio il nome del movimento lib-lab fondato nel 1929, con Carlo Rosselli Ferruccio Parri e Sandro Pertini in prima linea), chiede che siano rispettati “la famiglia, le classi, i Comuni” (quindi “classi” non era un concetto solo marxista) e che “lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare”. Certo che popolarismo e socialismo erano diversi in molte cose ma, come poi accadrà meno di mezzo secolo dopo, avrebbero potuto incontrarsi sulle riforme sociali per fare diga contro Mussolini.
Quell’incontro, che Sturzo non volle, sarebbe accaduto, in altro contesto storico, con i socialisti ormai lontanissimi dalle sirene marxiste, e avrebbe generato lunghissimi decenni di crescita democratica e benessere economico in molti paesi, e comuni visioni al Parlamento Europeo. Era potuto accadere perché né il popolarismo né il socialismo democratico tendono a dividere le società in blocchi, ma al più a giocare da opposti nel parlamento democratico, e possono sempre facilmente incontrarsi sue due punti chiave: lo stato sociale, la società aperta e multilaterale.
Il populismo, al contrario, partendo dall’abolizione delle intermediazioni e dal concetto di rapporto diretto tra leader e un indistinto quanto fantomatico popolo, ha bisogno sempre di dividere in due la realtà sociale e politica e schierare la propria metà contro l’altra. Quanto accade a Caracas in questi giorni è l’esatta rappresentazione di come il populismo spacchi le società in due parti e le aizzi l’una contro l’altra, attraverso odi invidie e rancori.
C’è anche del manicheismo in questa scelta, con la tendenza a interpretare la realtà in base a due soli colori, il bianco e il nero. Si tratta di semplificazione non solo grossolana ma, come mostra il caso venezuelano, pericolosissima, perché ignora la realtà che è sempre composita e multicolore, e ne dà rappresentazione come opposizione tra buono e cattivo, amico e nemico, alleato e avversario. Il fatto che i governi populisti siano nazionalisti e necessitino di combattere multilateralismo e sovranazionalità, è figlio anche di questa concezione della realtà e della politica: la divisione in due blocchi nel multilateralismo è inconcepibile, perché porterebbe inevitabilmente alla sua distruzione.
Ci sono due fatti recenti, rilevanti per i rapporti tra Usa e Europa, spiegabili solo attraverso tale chiave di lettura: il primo tocca lo status della rappresentanza Ue a Washington D.C, il secondo rilancia il progetto di portare gli Stati Uniti fuori dalla Nato.
L’8 gennaio Deutsche Welle ha informato che gli Stati Uniti, senza neppure informare Bruxelles, hanno deciso di declassare la rappresentanza diplomatica Ue a Washington, D.C., da “stato membro” a “organizzazione internazionale”. Qualcosa si era capito ai funerali di George Bush, quando lo sprezzante galateo di Trump verso gli alleati d’oltre Atlantico, spostò David O’Sullivan, rappresentante europeo, dai primi posti che gli appartengono di diritto (l’ordine del protocollo funziona per anzianità di presenza in sede, e il nostro è a Washington dal 2014) all’ultimo!
E dire che l’Ue esiste perché l’hanno voluta e sostenuta gli Stati Uniti, sin dagli albori nel 1951, quando al Congresso si affermava che “l’Europa unita e forte è nell’interesse del popolo degli Stati Uniti”. Non casualmente a quel tempo Washington inviò un ambasciatore presso la piccola e quasi insignificante Ceca che come missione aveva di mettere in comune carbone e acciaio.
Ha detto bene Udo Bullmann, esponente di punta dei socialdemocratici al Parlamento Europeo: “La scelta, se confermata, non solo mette a dura prova le relazioni transatlantiche, che hanno già molto sofferto dall’insediamento di Trump, ma certamente riduce il ruolo globale degli Stati Uniti a rischio di ulteriore isolamento nel panorama mondiale”.
È possibile che Trump, come ha fatto innumerevoli volte in questi anni di stralunata presidenza, cambi idea e si ritenga soddisfatto del ceffone affibbiato a una istituzione che, almeno ufficialmente, resta amica e alleata. Che però il suo progetto sia quello di spaccare l’Ue e di scegliere quali dei 28 privilegiare nelle politiche bilaterali commerciali e di sicurezza, risulta confermato dalla notizia circolata il 15 maggio sul New York Times. Vi si afferma che, più volte nello scorso anno, il presidente abbia invitato i collaboratori ad operare per l’uscita statunitense dalla Nato. Nulla di nuovo, perché sulla questione Trump fu abbastanza netto anche prima e dopo il vertice Nato di luglio, dove si permise un’arroganza verso i paesi membri davvero indegna della tradizione diplomatica degli Stati Uniti, oltre che dei 70 anni di alleanza.
Sarebbe interessante capire cosa ne pensano gli americani; se davvero si sentano a loro agio dentro le prospettive di politiche e alleanze internazionali che il loro presidente prospetta.