Dal momento in cui è arrivata al governo, la Lega – il partito di estrema destra, sovranista e populista guidato dal vice premier e ministro dell’Interno Matteo Salvini – ha aumentato il proprio consenso tra la popolazione italiana. Gli ultimi sondaggi lo indicano come la prima forza politica: circa 1 italiano su 3 pensa di votarlo, mentre il suo potenziale bacino elettorale potenziale è stato calcolato intorno al 40%. Ciò accade nonostante il fatto che molte delle azioni intraprese dal vice premier, a fronte del loro forte impatto emotivo, abbiano avuto risultati pratici molto limitati – sono stati modi per mobilitare gli affetti contro l’Europa e i migranti, piuttosto che ricercare soluzioni. Solo per fare uno dei tanti possibili esempi, alcuni giorni fa Salvini ha affermato che i 184 immigrati che sono sbarcati a Lampedusa (la piccola isola a sud della Sicilia che rappresenta un accesso preferenziale per la rotta migratoria dal Nord Africa) sarebbero stati rimpatriati in Tunisia nei giorni immediatamente successivi; tale annuncio non teneva tuttavia conto del fatto che il vigente accordo tra Italia e Tunisia che regola i tempi e le modalità dei rimpatri stabilisce una procedura alquanto diversa, come il governo tunisino ha ricordato.
In alcuni casi, le affermazioni e gli annunci di Salvini hanno avuto come effetto l’attivazione di una vasta gamma di reazioni emotive – da sentimenti di soddisfazione e di approvazione (va detto: da parte di un ampio segmento della popolazione italiana), alla preoccupazione e indignazione, come nel caso della dura reazione del ministro degli Esteri del Lussemburgo , Jean Asselborn, durante la recente conferenza di Vienna sulla migrazione. Purtroppo (per l’Italia e per molti italiani), in altri casi, la politica della “voce grossa” praticata da Salvini (e da altri membri del governo italiano) produce danni – lascia irrisolte questioni altamente critiche (si pensi, ad esempio, al ritardo nell’avvio della ricostruzione del ponte Morandi a Genova) o peggiora le cose, come nel caso dell’incertezza generata dalle affermazioni contraddittorie sulla politica di bilancio, l’unico effetto delle quali è di rendere più salato il costo del debito nazionale (lo spread è salito a quasi 300 punti); centinaia di milioni di euro che invece di essere utilizzati per sostenere lo sviluppo, dovranno andare a pagare l’aumento degli interessi sul debito.
Ciò che sta accadendo in Italia non è del resto un caso isolato. L’ultimo caso arriva dalla Svezia – alle elezioni politiche tenutesi in quel paese il 9 settembre scorso, la forza populista, di estrema destra, sovranista e anti-immigrazione – i Democratici svedesi – ha aumentato il proprio precedente risultato di 5 punti, raggiungendo il 17,5% dell’elettorato. Ed è difficile vedere l’ascesa del nazionalismo anti-immigrati in quel paese come una reazione alle condizioni economiche critiche o al rischio di un’invasione dei migranti. D’altra parte, sembra che il risultato dell’elezione del prossimo Parlamento europeo sia già dato per acquisito – ci si aspetta che le forze populiste sbaraglino la concorrenza, rendendo marginali i partiti tradizionali.
Sembrerebbe che in Europa – e non solo in Europa, se si guarda a ciò che accade dall’altra parte dell’Atlantico – un’ondata di irrazionalità ha profondamente influenzato il modo in cui l’opinione pubblica approccia le faccende politiche e istituzionali. Più il discorso delle forze populiste è confuso, irrealistico, ideologicamente violento, chiuso alle ragioni degli altri, privo di prospettiva temporale, in contrasto con i valori democratici, universalistici e umanitari alla base della Weltanschauung occidentale, più è attraente, e più è in grado di determinare l’agenda politica e lo scenario emotivo collettivo. Dalla primavera scorsa, quando i populisti sono saliti al potere in Italia, gli episodi di criminalità razziale in tale paese sono aumentati drammaticamente – alcune persone sono state prese a fucilate semplicemente per il colore della loro pelle. Ora, le persone sono più o meno le stesse dell’anno scorso; ciò che è cambiato è il sentimento diffuso, la sensazione di essere in guerra contro un nemico incombente (migranti, Rom…) e il conseguente senso di normalità e impunità associati alla reazione violenta contro quelli che sono considerati nemici.
In realtà, è difficile negare che nella maggior parte dei paesi occidentali molte persone sembrano indirizzare le proprie preferenze politiche in modo incoerente con i propri interessi. Allo stesso tempo, sembra abbastanza chiaro che ciò che rende appetibili le affermazioni e le azioni populiste e anti-migranti non è la loro capacità di risolvere problemi ma la loro abilità a sintonizzarsi e rispecchiare i sentimenti di frustrazione e rabbia diffusi tra ampi strati di società. Le persone domandano reazioni, non soluzioni.
Sarebbe tuttavia un grave errore pensare che si tratti solo di una mancanza di razionalità. La gente non è improvvisamente impazzita. Come la febbre è sintomo della malattia, ma anche il modo con cui il corpo cerca di curare se stesso, allo stesso modo il crescente sostegno alle forze populiste va considerato il modo di soddisfare una domanda profonda che non trova altro modo di essere raccolta.
Se si dà un’occhiata più da vicino al discorso populista si possono individuare al suo nocciolo due elementi intrecciati. Da un lato, il discorso populista è intrinsecamente paranoide – si basa sul ed è intessuto del riferimento ad un nemico. L’élite è il bersaglio principale: il populismo si nutre dell’evocazione dell’élite cattiva che cospira per i propri oscuri ed illegittimi interessi a scapito dei “giusti” (il popolo, mitica ed idealizzata controparte). Di solito, la categoria dei nemici viene ulteriormente ampliata, includendo, a seconda dei casi, migranti e/o musulmani e/o altri paesi e/o le istituzioni europee e così via. Dall’altro lato, il populismo è caratterizzato dalla proposta di politiche di corto respiro che sovrappongono obiettivi e metodi/strategie – vale a dire: politiche che traducono direttamente il risultato che si intende raggiungere in ciò che viene fatto. Un tipico esempio, ampiamente analizzato, di questa confusione tra obiettivi e metodi è fornito dalle politiche economiche populiste adottate in diversi paesi latinoamericani: la difesa del potere d’acquisto del popolo e la lotta all’inflazione, che dovrebbe essere l’obiettivo della politica economica, sono trasformate nel contenuto dell’intervento (cioè, nel metodo), ad esempio nei termini dell’imposizione per legge del blocco dei prezzi. L’effetto di tale tipo di interventi è un miglioramento momentaneo ed effimero, seguito dall’aumento dell’inflazione e dal peggioramento dell’economia, dunque da un ulteriore aggravamento delle condizioni dei segmenti più poveri della società – vale a dire: di coloro che costituiscono i beneficiari della politica. In breve, i populisti non risolvono i problemi, soddisfano il desiderio delle persone di credere che le cose possano cambiare e possano essere affrontate in modo rapido e giusto. Il populismo è stato definito la politica della speranza.
Ciò che è dunque necessario è riconoscere che il sostegno alle forze populiste non dipende da quanto tali forze siano in grado di affrontare efficacemente i problemi; riflette piuttosto la capacità del discorso populista di soddisfare la domanda di identità delle persone – cioè, il senso di “noità” nutrito dalla percezione di un nemico minaccioso da cui difendersi – e di capacitazione – cioè, il sentimento che è possibile cambiare lo stato delle cose, facendo sì che il bene vinca sul male.
Solitamente, tale riconosciuto è la base di critiche rivolte sia ai populisti – accusati di essere incompetenti, demagogici, dediti alla propaganda – che alle persone che li trovano attraenti – accusati di essere irrazionali, ingenui, privi non solo di senso civico ma anche di umanità. Simili critiche avere anche un effetto consolatorio per chi le formula; ma rappresentano una strategia totalmente inefficace, se l’obiettivo è di mettere un argine contro l’attuale sfaldamento delle istituzioni democratiche e dei valori universalistici su cui le società occidentali sono fondate. La domanda di identità e capacitazione non può essere sradicata come se fosse un’epidemia di colera. Il fatto che questa domanda sia espressa in modo sbagliato non rende la domanda sbagliata. Al contrario, mentre è vero che le soluzioni proposte dai politici populisti sono inefficaci e spesso controproducenti, è anche vero che quando una soluzione controproducente attecchisce, significa che la domanda cui essa prova a dare risposta è tanto profonda, quanto indisponibili sono le alternative.
Ciò che è assolutamente necessario è capire le ragioni che alimentano una tale domanda, che cosa l’ha resa così forte rispetto anche al recente passato e quali modi alternativi di soddisfarla possono essere individuati – modi che devono essere sia competitivi rispetto alla sirena del populismo che capaci di far progredire il progetto democratico nel tempo della globalizzazione.
Il progetto Re.Cri.Re. ha avanzato una serie di analisi e proposte in tale prospettiva. In breve, l’idea centrale è che la globalizzazione ha reso le persone incapaci di cogliere – cognitivamente ed emotivamente – le dinamiche reali che influenzano profondamente le loro vite. Le persone sono frustrate e influenzate profondamente da processi (ad esempio, la finanziarizzazione dell’economia, i meccanismi alla base dei cambiamenti climatici, lo sviluppo tecnologico, gli equilibri geostrategici) che non sono semplicemente difficili da comprendere: sono oltre la possibilità stessa di essere rappresentati. Le persone vedono le proprie vite cambiare senza percepire perché e in che modo ciò sta accadendo. Questo crea un senso di incertezza e di impotenza che trova il proprio antidoto più efficace nella risposta affettiva di nemicalizzazione dell’altro. In effetti, chi ha un nemico ha un’idea chiara di se stesso, di cosa deve essere fatto, perché e per cosa.
Esiste una soluzione diversa dalla nemicalizzazione dell’altro alla domanda di identità e capacitazione? Non è possibile dare risposte conclusive a simile interrogativo. Ciò che si può però dire è che vale la pena scommettere su una risposta positiva. Una tale scommessa dovrebbe comprendere due strategie generali, tra loro complementari. Da un lato, la riduzione dei fattori socio-politici che contribuiscono a generare incertezza e impotenza, così da permettere una attenuazione delle condizioni che rendono la domanda di identità così radicale e pervasiva. Ciò significa, ad esempio, aumentare la capacità cognitiva e politica delle comunità locali di governare le condizioni dalle quali dipende la vita delle persone; dare maggiore visibilità ai circuiti decisionali che sottendono i processi economici e istituzionali – in breve: ostacolare il sentimento di fine della storia: l’idea che nessun cambiamento sia possibile – ripristinando la fiducia nella politica come modo per affrontare le questioni critiche (ad esempio, la disuguaglianza economica) e più in generale di progettare un futuro migliore. Dall’altro lato, è necessario un nuovo corso politico e istituzionale al cui nucleo vi sia la costruzione di infrastrutture sociali e culturali di cittadinanza (ad esempio comunità di progetto, arene civiche, nuove forme di partecipazione politica) che non neghino le identità (il senso di appartenenza delle persone, i legami con la comunità, le tradizioni locali) e, allo stesso tempo, siano in grado di promuovere il perseguimento di obiettivi universali: il rispetto per la diversità, l’inclusività, il dialogo interculturale, la cooperazione.
Non facile da fare, ma non vi è altra strada.