Giorgio Gori, candidato alla Presidenza della Regione Lombardia per il Partito Democratico, rispondendo ad una domanda su Marcello Dell’Utri, ha dichiarato: “…se le condizioni sono quelle di cui leggiamo, non è giusto che resti in carcere…ho sempre pensato fosse una persona molto colta, e questo ovviamente non ha nulla a che fare coi suoi processi, su cui nulla posso dire” . Parole miti, equilibrate.
Il Sen. Mario Giarrusso, del M5S, ha così chiosato: “Trovo obbobrioso che il candidato alla Regione Lombardia del Partito Democratico, ex dipendente di Berlusconi Giorgio Gori si schieri a favore della liberazione di Marcello Dell’Utri…” . Il paventato obbrobrio nasce dall’ipotesi che una persona malata possa accedere a cure extrapenitenziarie. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, tuttavia, forse orripilato anch’esso, circa un mese fa, ha rigettato la richiesta. E, allora, di che stiamo parlando?
Il fatto è che Marcello Dell’Utri, com’è noto, è in attesa di un altro provvedimento: dalla Corte di Appello di Caltanissetta, forse imminente, forse no. La quale, dovendo decidere sulla revisione della sua condanna, nel frattempo potrà o meno sospenderne la pena.
E qui il tema si amplia: perchè, dalla salute del corpo, passiamo a quella della civiltà; non meno compromessa di quella del famoso detenuto. Si discute, si osa discutere, nientemeno, che di “Concorso Esterno”. E, dall’obbrobrio, rischiamo di passare al mancamento, al deliquio impotente e disperato.

Il criterio di maggior peso sembra sarà la “storia giuridica” dell’accusa; e se questa possa considerarsi o meno identica a quella di Bruno Contrada, come definitivamente fissata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Riepiloghiamo: concorso cd esterno in associazione mafiosa. Definizione dei suoi caratteri ad opera della giurisprudenza. Chiarezza, solo a partire dal 1994; oscurità, prima. Impossibilità, dunque, per l’accusato di condotte anteriori a quell’anno (come anche Dell’Utri), di difendersi, prevedendo le loro “conseguenze penali”.
Traspare un certo candore, da “sì dolce idioma” che viene da Strasburgo. Secondo cui, le nebbie del diritto, in Italia avrebbero preso a diradarsi per l’irraggiamento chiarificatore della giurisprudenza. E le accuse, o le condanne, di “concorso esterno”, da allora in poi, sarebbero state sottratte all’incertezza, e all’arbitrio. Quasi che dopo “il 1994” (sentenza Demitry), non ci fosse stato “il 1995” (Mannino, custodia cautelare), e poi “il 2002” (Carnevale), e poi ancora il “2005” (Mannino, imputazione). E’ evidente che, “nel 1994”, non tutto era stato chiarito.
Tanto che ancora oggi non è nemmeno certo se “il decidente” debba fare applicazione diretta delle pronunce CEDU “nell’ordinamento interno” (come previsto dai trattati, e confermato dalla Corte Costituzionale); e allora, su Dell’Utri deciderebbero a Caltanissetta. Oppure no (come invece, per es., lasciò obliquamente intendere una delle varie Corti di Appello che si occuparono di “Contrada post-CEDU”: affermando che l’interpretazione della Corte europea sul “concorso esterno” era “di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”); e, allora, occorrerebbe anche ora attendere Strasburgo. E così via. Sappiamo. Con malcelata degnazione, vengono chiamate “questioni di diritto”. Pertanto, non solo è sfuocato il quadro, ma pure la cornice è malferma. Perchè?
Si sa cos’è accaduto, con il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa. Come ha riconosciuto il dott. Morosini, magistrato autorevole e che, come si dice, ha avuto voce in capitolo, “la svolta…si registra negli anni novanta”; “la magistratura, con il concorso esterno, ha dimostrato di non volersi fermare sulla soglia del potere. E’ stata capace di attraversare quella sottile linea di demarcazione che di rado nella storia italiana era stata valicata. In effetti, il “concorso esterno” consente di indagare più efficacemente e agevolmente sulle “alleanze nell’ombra”.
Parole che scandiscono una rivendicazione, e qui inducono un’autonoma deduzione. “Negli anni novanta”. Cioè, dopo Falcone e Borsellino. Quando, per chiarire iussu iudicis “la storia italiana”, si è oscurato il diritto. Questo è accaduto.
Qualche settimana fa, ricorderete, si è trovato “l’appunto”. Berlusconi, annotava Falcone nel 1989, “paga i boss di Cosa Nostra”. Un’annotazione lasciata fra le carte, come di cosa di scarso interesse. A pensare, infatti, che “Il Giudice” avesse affidato alla polvere un’ipotesi di significato penale (e grave), torneremmo, post mortem, al Falcone che “tiene le prove nei cassetti”. Possono bastare gli insulti a lui vivo.
Tuttavia, il guasto, l’inseguimento di “alleanze nell’ombra”, considerando le fattispecie come infìde “linee di demarcazione” da valicare, anzichè segni della giusta via da seguire, non sono stati opera solitaria di alcuni. Ma descrivono un avventurismo interpretativo corale, che ha avuto ed ha un suo Vello d’Oro: “la contiguità mafiosa”. La quale, in quella stentorea descrizione di compiti e mete del “concorso esterno”, si declina nei “complici nelle istituzioni, nella società, nel circuito economico-finanziario”.
Definita, cioè, non definita, da simili ampiezze, “la contiguità mafiosa”, da supposta vicenda individuale, si sublima in Idea, che non si discute. Quei pochissimi che lo fanno, o sono affetti da “veteropositivismo giuridico” o, naturalmente, sono filomafiosi. Cioè, contigui “per negazionismo”.
Tutti gli altri, compresi quanti si dicono critici, si distinguono semplicemente fra coloro per cui la “fattispecie concorsuale” sarebbe meglio definita dal Parlamento, con legge; e quanti per cui, visto che la duttilità non è mai troppa, è preferibile lasciar fare ai giudici. Ma il postulato-primo è comune: noi saremmo una comunità nazionale affetta da una sicura marcescenza etico-storica. Maggiore o minore, ma sicura.
Essendo, dunque, la “contiguità mafiosa” un’Idea, con la maiuscola, non si può “dimostrare se c’è”: solo “riconoscere che esiste”. Perciò, le “prove”, anzichè fissare “cause”, “effetti”, interpretano “condizioni”, “idoneità”. Sorge e si impone un moralismo nel diritto processuale, ancora più deleterio di quello che alligna nel diritto sostanziale.
In tutti i processi per “contiguità” (Andreotti, Contrada, Carnevale, Mori, Mannino) i capi di imputazione hanno così avuto vastità esistenziale, alimentandosi di riscritture biografiche. Dalla giovinezza alla canizie, ogni segmento della giornata, può farsi “sintomo”, “indice rivelatore”: tutto, meno che “fatto tipico”. Condanne, assoluzioni, annullamenti, rinvii, un turbinìo di giudizi che si fagocitano l’un l’altro; dove l’accertamento si estende, si accartoccia, si ferma e poi riparte da un punto sempre diverso: si fa estenuazione. E il processo, tentacolare nei decenni, si prende comunque la vita dell’inquisito.
Perciò, Strasburgo, col suo candore sulla “prevedibilità delle conseguenze penali”, fa quasi tenerezza. Forse l’unico modo per onorare il diritto, sarebbe riconoscere che, a furia di valicare “linee di demarcazione”, il diritto, da noi è morto; che “i luoghi della Giustizia” sono diventati, letteralmente, infrequentabili. E che bisogna ricominciare tutto da capo. Senza una “storia italiana” da riscrivere. Senza seguitare ad alimentare un “rito” in cui si accetti che, “alla fine, una decisione comunque arriva”. Perchè questo “comunque arriva”, non significa niente: proprio niente.
Lo dovrebbero dire i saggi e i dotti, in primo luogo. Fino ad allora, rimarremo fermi qui: a questa tortura chiamato processo; a questo scempio chiamato diritto; e al Vello d’Oro della “contiguità mafiosa”.
Obbrobrioso, in effetti.