Giovedì, il Consiglio Comunale di Genova, ha approvato il conferimento della cittadinanza onoraria al dott. Antonino Di Matteo. La ragione giustificativa dell’onoreficenza è stata di avere “indagato sulle stragi di mafia in cui sono stati uccisi Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le rispettive scorte”. Il voto è stato unanime.
A partire dal XXV anniversario della strage di Via D’Amelio, Fiammetta Borsellino, terzogenita del magistrato ucciso, ha inferto, pubblicamente e ripetutamente, profonde e lancinanti fustigazioni a quelle conduzioni investigative. Sicché, intestargli proprio il merito di avere indagato sulle stragi di mafia, e con la solennità definitiva di un tributo formale, se non al pudore, è stato per lo meno scorno alla cautela.
E non che qui dovessero valere i titoli del sangue, in quanto tali (inteso anche come segno del nome); nobili d’origine, non si discute, magari taluno vorrebbe osservare: ma avvolti e travolti dal trabocco delle emozioni; a dispetto della razionale conoscenza, invece limpidamente acquisita, in ipotesi, da una più controllata lena investigativa.
No. Perché, la figlia certo critica, e con la collera di un cuore indomito, le false ragioni addotte per la strage del padre; ma propone argomenti, traccia linee spazio-temporali precise, scandisce nomi, evoca scelte e responsabilità. In sintesi, si erge contro la gestione Scarantino; e l’infondata rivendicazione del suo valore probatorio: sostenuta in sede dibattimentale pure dal dott. Di Matteo, sebbene in tempi successivi alla formazione investigativa delle dichiarazioni mendaci.
Nonostante, a tacer d’altro, gravissimi dubbi, al riguardo, fossero stati espressi, nero su bianco (Giugno e Settembre 1994), dai Pm Roberto Saieva e Ilda Boccassini, sin dall’origine della sua c.d. “collaborazione”; nonostante la ritrattazione, e la ritrattazione della ritrattazione; e il di più, ancora, che ha poi sorretto, dopo diciannove anni dai primi arresti (di pochi mesi successivi alla strage), l’annullamento di sette condanne all’ergastolo, inflitte nei due primi processi c.d. Borsellino.
Semmai, il riconoscimento di Genova, qui al grado dell’amministrazione locale, ma secondo movenze agevolmente riconducibili ad un più ampio sostrato subculturale nazionale, denota un accostarsi ai fatti e alle memorie più tragiche e preziose di questo Paese, con l’abito mentale del maggiordomo, se non dello sguattero. E tanto più per il suo pigro unanimismo. Che il Principe sia l’Autorità Giudiziaria, meglio se inquirente, meglio che meglio se Antimafia, è appena il caso di sottolinearlo.
Così, quanto ai fatti, si sono avute le recenti votazioni parlamentari (in termini di equilibrio costituzionale e democratico, non meno dozzinali che pericolose), sul Codice Antimafia c.d. “esteso” alla P.A.; oppure, risalendo fino alle precedenti legislature, quelle sull’attribuzione di poteri “proscrittivi” alla Commissione Antimafia (che può, anche in questo caso, per palindromo voto politico, legittimamente “… indagare sul rapporto tra mafia e politica… con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive…”).
Quanto alla memoria affidata alla scarsa memoria, valga la presente attribuzione di meriti, nonostante i demeriti autorevolmente e apertamente denunciati. L’immagine di “avere indagato sulle stragi di mafia”, pur mantenendo una fissità quasi iconica, com’è noto, inoltre, si sublima nell’Ipotesi-Madre: quella della c.d. Trattativa Stato-mafia. La cui verità storica e processuale, al contrario, è stata già recisamente negata in sede giudiziaria.
Già nel luglio 2013, infatti, il Tribunale di Palermo, assolvendo il Generale Mario Mori e il Colonnello Mario Obinu dall’accusa (sostenuta anche dal dott. Di Matteo) di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, fra l’altro, scriveva (pag. 227): “…l’eventualità che la strage di Via D’Amelio sia stata determinata dall’esigenza di eliminare un ostacolo ad una ‘trattativa’ in corso fra lo Stato e la mafia è rimasta una mera ipotesi..” Eventualità. Mera ipotesi. Avendo quel Tribunale, tuttavia, già precisato, con incisività da epigrafe marmorea, che la tesi “…rischia di essere fuorviante, e di far apparire, attraverso facili dietrologie ed impropri richiami moralistici, senz’altro come complicità o connivenze gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi in attesa di tempi migliori…“ (pag. 82). Sentenza confermata in Corte di Appello, e dalla Corte di Cassazione.
Ora, un tale atteggiarsi sui fatti e sulle memorie, oltre che discutibilissimo in termini politici e culturali, lo è anche in termini morali; se, come si deve, per “morale”, deve intendersi “il Vero”, oltre che “il Bello” e “il Buono”, secondo la fondativa articolazione socratica. Ancora Fiammetta Borsellino, da ultimo dagli studi televisivi della trasmissione “Nemo”, puntualmente ha riproposto questo discriminante accento: “..sia ben chiaro, dal punto di vista morale, per noi non potrà avere alcuna plausibile giustificazione…”: riferendosi al trattamento investigativo e processuale di Scarantino, fonte di una “…storia di orrore, di menzogne…”.
Ecco, la Città di Genova (volendo, anche con una sbirciatina ai link che sono offerti fra queste sommesse considerazioni), già Medaglia d’oro della Resistenza, deve sapere che i suoi consiglieri, all’unanimità, hanno rinunciato: all’equilibrio, all’onere faticoso e insieme appagante di chi cerca e non si appaga.
Se mai ci fosse altra sofferenza, noi ne saremo sinceramente addolorati; come ci diciamo rispettosi di ruolo ed intenzioni, avuti da chiunque abbia agito in una trincea comunque profonda e frastagliata.
Ma il Consiglio Comunale di Genova, no. Proprio perchè libero da angustie, dal logorìo di una lunga e opprimente stagione, e disponendo di formali accertamenti e chiarimenti, definitivi ormai da anni, il suo contegno democratico è semplicemente ingiustificabile. E dove l’errore sia frutto di disimpegno conoscitivo, è il peggiore degli errori. E’ l’Errore della viltà.
Hanno orecchiato. Hanno scopiazzato. Hanno imposto una fittizia univocità, dove c’era e c’è materia, almeno, per corpose e tribolanti incertezze, per severe critiche e consistenti dubbi.
Hanno reso la Rappresentanza Politica accomodante, mestierante: e renitente alla superiore dirittura della Memoria, del suo dolore, della sua verità.