Caro Direttore,
Come succede in genere in particolari momenti di riflessione pubblica, mi permetto di scriverle e approfittare dello spazio che lei sempre gentilmente concede, per provare a esprimere la mia opinione su alcuni importanti passaggi della vita politica italiana delle ultime settimane e che riguardano in modo particolare anche le nostre comunità nel mondo.
Il 29 e 30 settembre scorso si è tenuto a Roma un Convegno organizzato dal Gruppo parlamentare del Partito Democratico: il mio Partito, la mia casa. Era un momento per fare il bilancio di quanto il Gruppo PD alla Camera ha fatto in questi anni di legislatura e per riflettere sulle prospettive future. Vi hanno partecipato, insieme a diversi delegati all’Assemblea nazionale del PD, segretari di circolo e di Paese e personalità esterne del mondo dell’emigrazione, anche importanti personalità del Partito e delle istituzioni: dal Capogruppo del PD alla Camera al Responsabile per la politica estera del PD, dalla Vice Presidente della Camera al sottosegretario per gli italiani nel mondo, dai parlamentari eletti all’estero al Segretario generale del CGIE. Oltre che al sottoscritto.
Il 7 ottobre, solo una settimana dopo, in Commissione affari costituzionali prima e poi in Aula (qui con la fiducia), si è votato un emendamento che cambia radicalmente l’approccio della rappresentanza all’estero rispetto a quello degli ultimi diciassette anni. Se cambia l’approccio sulla rappresentanza, ovviamente, cambia l’approccio sull’identità e sulla visione della natura delle nostre comunità, di cui la rappresentanza è appunto proiezione.
Cambia quindi il progetto verso gli italiani nel mondo. Mi riferisco all’emendamento Lupi, che rovescia il principio del 2001 secondo cui non si potevano candidare al Parlamento nella Circoscrizione estero i residenti in Italia.
Con quell’emendamento si stabilisce che, dalle prossime elezioni, i residenti in Italia possono candidarsi in una a piacere delle ripartizioni estero e che un residente all’estero si può candidare solo nella ripartizione di residenza. A meno che (ma non sta nell’emendamento) non eserciti l’opzione del voto in Italia, cosa non richiesta, al contrario, a un residente in Italia.
Senza entrare nel merito della discussione giuridica e costituzionale di cui tanto si è dibattuto al momento dell’introduzione della Circoscrizione estero e in questi giorni, e di cui non penso nemmeno di avere le giuste competenze, mi sembra chiaro che la candidatura esclusiva per i residenti all’estero o la possibilità di candidarsi anche agli italiani residenti in Italia, cambi politicamente – e di molto – l’idea di cosa sia la Circoscrizione estero, di cosa siano le nostre comunità nel mondo.
Dunque non discuto qui se si sia allineata la legge alla Costituzione, come sostengono alcuni, o se si poteva continuare a evitare come si è fatto per diciassette anni. Se si sia introdotta la reciprocità oppure se la sia limitata. Ne hanno discusso molto, in questi giorni, le personalità più diverse e autorevoli.
Mi pongo, invece, delle domande tutte politiche. Perché è stato presentato questo emendamento dall’onorevole Lupi, visto che, secondo quanto lui stesso ha affermato in una intervista a La Repubblica, non era di interesse del suo Partito e che gli è stato chiesto dal PD di presentarlo? Perché se l’emendamento è solo un allineamento alla Costituzione, quindi condiviso con orgoglio costituzionale dal PD, non l’ha presentato il PD stesso rivendicandone paternità, necessità e approccio politico verso le comunità, come si fa per tutte le altre riforme messe in cantiere?
E, soprattutto, vista la portata del cambiamento di visione che questo emendamento produce nell’approccio politico verso le nostre comunità, perché non si è mai aperta prima una discussione, nel nostro Partito e nei circoli, o nel Convegno della settimana precedente, o nel Gruppo parlamentare, o almeno in quello degli eletti all’estero, quasi tutti della maggioranza di Governo?
Domande che immagino rimarranno aperte. Ma per parte mia, mi assumo delle responsabilità: fossi stato in Parlamento non avrei partecipato al voto su questo emendamento, né a quello sulla fiducia e mi sarei limitato a votare solo la legge finale. Questo perché, comunque, penso responsabilmente che una legge elettorale complessiva, uguale nei due rami del Parlamento, che consente le coalizioni, che istituisce i collegi maggioritari, che indica sulla scheda i nomi dei candidati in liste di collegio cortissime, sia un notevole progresso rispetto al consultellum e che sia un bene per il Paese.
Detto questo, però, penso che si debba tornare a capire e ragionare, soprattutto dopo questo emendamento, quale idea e progetto si ha sugli italiani all’estero e verso le nostre comunità e la loro rappresentanza. Idea, progetto e aggiungo rapporto, che non devono essere chiariti solo nel PD e dal PD, ma dall’insieme delle istituzioni italiane.
Penso che non avremo mai chiarezza su questo se ci limitiamo alla cronaca, alle interviste o dichiarazioni di tutti noi. E nemmeno se aspettiamo solo di conoscere i programmi elettorali dei singoli partiti sugli italiani nel mondo o se ci limitiamo a guardare gli atti del Governo e del Parlamento in questi anni. Nemmeno quelli positivi messi finalmente in cantiere dai governi di questa legislatura, perché sono tutti atti di emergenza, di tampone, di recupero, di tenuta, dettati dalla contingenza. Utili e positivi, sì, ma di ordinaria amministrazione.
L’ho detto al convegno del 29 e 30 settembre e lo ripeto a Lei, caro direttore, con la speranza che abbia voglia di parlarne qui e far discutere anche i suoi lettori e le personalità più autorevoli nel nostro mondo. Io credo ci sia bisogno di riprendere una riflessione istituzionale di ampio respiro che coinvolga, sotto l’impulso della Presidenza della Repubblica, le presidenze di Camera e Senato, la Farnesina, il Ministero dell’Interno, il Governo, il CGIE, insieme alle varie e articolate realtà del nostro mondo all’estero: i media italiani all’estero, l’associazionismo, le professioni, le eccellenze, i sindacati, le imprese, il mondo cattolico.
Insomma, si metta in cantiere di convocare una nuova “Conferenza istituzionale degli italici e della nuova emigrazione”. Ripartiamo, aggiornandolo alla contemporaneità e proiettandolo nel futuro, l’approccio delle Conferenze istituzionali del passato, fino all’ultima del 2000. Magari recuperando il buono di quelle volute da ministro Mirko Tremaglia con i vari convegni degli scienziati italiani nel mondo, gli Imprenditori, gli Artisti, i Ristoratori.
Un Conferenza istituzionale nella quale, pur tenendo conto della complessità e articolazione del nostro mondo e facendo risaltare le realtà locali, i livelli di integrazione, le formule diverse di rapporto con l’Italia, si possa stabilire, in un progetto di ampio respiro e fuori dalle contingenze, in che direzione vuole andare l’Italia nel rapporto con le proprie comunità, quale sia la visione di medio periodo, come le colloca nella proiezione internazionale del Paese e come intende far sì che esse organizzino la loro rappresentanza e la loro identità italica in rapporto ai paesi nei quali vivono pienamente integrate o, ancora, con problemi di integrazione, quando non di clandestinità o addirittura di espulsione.
Nella cronaca di queste settimane, dei mesi che verranno in vista delle elezioni politiche e del rinnovo del Parlamento, io credo che questa discussione non si potrà fare serenamente. Penso che sarà viziata dalla campagna elettorale, dalla corsa a programmi finalizzati al consenso (come è normale che sia), dalla necessità dei candidati di spiegare il proprio progetto, rimarcando la differenza (o peggio ancora l’assenza di differenze) rispetto agli altri candidati o altri partiti per guadagnare la propria elezione o la vittoria del proprio partito o lista. È nelle cose.
Serve invece altro, all’inizio della prossima legislatura e a nuovo Parlamento eletto. Serve uno sguardo più lungo sull’orizzonte, quindi serve salire su un piano di osservazione più alto, dal quale risvegliare una nostalgia per una idea delle nostre comunità.
Come direbbe Antoine de Saint Exuperi, “Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.
Ecco, caro Direttore, io penso che la Conferenza possa servire a far mettere l’Italia al lavoro per costruire la nave degli italici, con il contributo di tutti voi che vivete nel mondo. Possa servire, emendamenti o no, a risvegliare un’identità e un progetto sulle nostre comunità.