Nella settimana del provvedimento che ha avviato al Congresso la destrutturazione di Obamacare, la politica estera del nuovo presidente muovere i primi passi. Ne sapremo di più a fine mese, dopo il tour europeo e mediorientale di Donald Trump, ma qualche considerazione di rilievo può già ora essere proposta.
A tenere banco è il discorso che il segretario di Stato, Rex W. Tillerson, ha proposto mercoledì 3 maggio ai dipendenti del suo ministero, per taluni commentatori scandaloso e gretto pronunciamento da vecchia ciabatta isolazionista. Si vedrà, attraverso l’esegesi dell’intervento, quanto i suoi contenuti combacino con l’agenda di politica estera che il presidente sta portando avanti, e con i primi effetti che essa potrà produrre in giro per il mondo.
Con riferimento a un presunto atteggiamento americano che si sarebbe tradotto in politiche troppo accomodanti con alleati e paesi emergenti, Tillerson ha denunciato che le cose sarebbero ora “a little bit out of balance” e che quindi “righting those imbalances” sarà la missione primaria del dipartimento. Raddrizzare i presunti eccessi di generosità e rivedere gli sbilanci delle politiche americane nel mondo, significherebbe adempiere pienamente la promessa trumpiana di riportare l’America ad essere la prima della classe, e l’intento dell’amministrazione di mettere sempre al primo posto gli interessi americani. Fin qui niente di nuovo e soprattutto di operativo: il consueto slogan presidenziale “America First” riciclato sino alla nausea, che un Tillerson allineato non si è fatto mancare.
Sicuramente più interessante, la parte del discorso che ha affrontato i singoli teatri di sensibilità o crisi: il nucleare nordcoreano, ad esempio, il ruolo cinese nella politica mondiale, le violazioni russe lungo la sua lunga frontiera occidentale.
Qui il fraseggio di Tillerson ha fatto pensare alla celebre frase che Winston Churchill, secondo a nessuno in quanto a conservatorismo e governante di razza, ebbe a dire dell’uomo politico titubante e accomodante: “Uno che porta cibo al coccodrillo sperando che lo mangi per ultimo”. I dittatori andrebbero trattati con fermezza non con l’offerta di ramoscelli d’olivo incomprensibili alle loro sensibilità criminogene. E’ la fermezza che apprezzano, temendola; non le minacce altisonanti seguite da imperdonabili attestati di stima come quelli rilasciati dal presidente statunitense al sanguinario despota di Pyongyang. La Cina va tranquillizzata a livello economico e commerciale, e al contempo spinta a contribuire a politiche democratiche nel domestico e nell’estero. Al miglioramento del rapporto con Putin non contribuiscono certo le dimostrate interferenze russe a favore di Trump e contro Clinton. La frase di Tillerman “Today, there’s almost no trust between us” non fa il paio con quanto il presidente dichiarava, nelle stesse ore, sull’iniziativa diplomatica russa in Siria. L’opacità della connection russa condiziona, in questa fase, un punto essenziale della missione americana nel mondo, visto che riguarda anche i paesi che, almeno sulla carta, risultano alleati degli Stati Uniti.
Continuando la sua pedagogia geopolitica e geostrategica, il segretario di Stato ha trovato modo di soffermarsi su Africa e sud-est asiatico, ma ha bellamente omesso ogni e qualunque riferimento all’Europa. Visto che nella vicina puntata a Bruxelles, il presidente statunitense visiterà la Nato, ma non gli uffici dell’Unione Europea, vi è da pensare che il silenzio di Tillerman sia deliberato: o non vi sono ancora idee chiare sul futuro dei rapporti transatlantici (si propende per questa interpretazione) o siamo alla vigilia di grosse novità (negative) in materia.
Le battute del segretario di Stato che più hanno colpito i commentatori, sono state quelle dedicate al rapporto tra interesse nazionale e valori americani. Tillerson ha con evidenza affermato che minore enfasi verrà data alla promozione dei diritti umani, dovendo la politica estera statunitense rigettare le rigidità dei principi e adattarsi alle situazioni. Mischiando, vien da dire, sacro a profano, il segretario di Stato ha affermato: “If we condition too heavily that others must adopt this value that we’ve come to over a long history of our own, it really creates obstacles to our ability to advance our national security interests, our economic interests”.
Si tranquillizzi Tillerson: salvo pochissime eccezioni, mai gli Stati Uniti hanno condotto una politica estera improntata alla difesa dei diritti umani: nel secondo dopoguerra forse la sola presidenza di Jimmy Carter li issò, insieme al pacifismo, come bandiera americana, e si sa come andò a finire. Quindi proceda tranquillo: lui e Trump sono nel solco della tradizione di un paese che, nel migliore stile anglosassone, tira da sempre diritto nel segno dei suoi interessi di sicurezza e ricchezza.
In Tillerson si ritrovano, però due errori grossolani che neppure la realpolitik di Henry Kissinger (1969-1976), o la tesi reaganiana sull’”impero del male” sovietico, come quella di Bush W. sull’ “asse del male” (Irak, Iran, Corea del nord, all’inizio del nuovo secolo), si erano permesse.
Il primo errore sta nell’identificare i diritti umani nei valori americani. Come dicono gli aggettivi nelle due espressioni, mentre i diritti umani appartengono all’universalità della specie che gli statunitensi condividono con ogni altra nazione, i valori americani sono prodotti della particolare storia vissuta dalla nazione statunitense. La ripetuta riottosità di Washington ad aderire a taluni meccanismi della collaborazione universale (clamoroso il rifiuto di far parte della Corte penale internazionale), ora esaltata dalla Casa Bianca, sottolinea la differenza tra i due concetti. L’Exceptionalism statunitense vige anche in fatto di diritti e valori.
Il secondo errore riguarda la definizione di sicurezza nazionale, in termini strategici ed economici. Nel novecento la politica statunitense ha ricercato sicurezza attraverso accordi multilaterali che le garantivano di poter operare come potenza globale. Il neo-isolazionismo enunciato a più riprese da Trump, qui ripreso da Tillerson, ha poco a che vedere con gli interessi americani. E’ nel multilateralismo strategico (sistema di sicurezza Onu e Nato), e in quello economico finanziario e commerciale (Banca Mondiale, UE, OCSE, WTO, OSCE) che l’America è cresciuta e si è imposta sulla scena mondiale. Lo sfacciato unilateralismo e suprematismo di “America first” se davvero andasse in onda innescherebbe eguali e innumerevoli altri “First” ad opera di altre nazioni, rendendo il mondo meno sicuro e meno ricco. Alla fine anche l’America si trova nel mondo, no? Quando gli isolazionisti degli anni ’30 usarono la stessa espressione,crearono le condizioni per Pearl Harbor e per il successivo intervento statunitense in guerra nelle peggiori condizioni. E oggi il mondo è immensamente più interconnesso di allora, in termini economici e di sicurezza. Va salvaguardato come unità sistemica, non come sommatoria di superbe pretese nazionalistiche di supremazia.
Non basta enunciare, come ha fatto Tillerson mercoledì, che “America first” non cambia la natura della politica estera statunitense (“It’s America first for national security and economic prosperity and that doesn’t mean that comes at the expense of others,”), se poi si ricercano misure che vanno in tutt’altra direzione come accade nella politica commerciale. Così come non basta dire “Our partnerships and alliances are critical to our success in both those areas.”, se poi si esasperano le relazioni bilaterali e si depotenziano quelle multilaterali, snobbando, ad esempio, le istituzioni della Unione Europea.
L’enunciazione di 40’ di Tillerson al dipartimento di Stato, farà da cornice ideale ai contenuti e alle teorie che il presidente enuncerà durante la missione che si appresta ad intraprendere tra Golfo, Medio Oriente ed Europa. Tra l’altro Trump visiterà Arabia Saudita, Israele, territori palestinesi e Santa Sede (24 maggio) rapportandosi esplicitamente alle tre più rappresentative religioni monoteistiche e alla questione palestinese, in un ambito che il suo segretario di Stato si è ben guardato dal toccare. Sarà alla Nato a Bruxelles il 25 e parteciperà nei due giorni successivi al G7 di Taormina, sotto presidenza italiana.