L’ultima pronuncia è quella del The Economist: “Perchè l’Italia dovrebbe votare No al Referendum”, titola nel suo ultimo numero (naturalmente in inglese). Non stupisce: si tratta, come sappiamo, di uno dei maggiori settimanali del mondo, sguardo lungo e fisso su ogni dove. E sull’Italia oggi riecheggia il suo celebre “Unfit”, riferito all’attitudine governativa di Berlusconi. Oggi, “unfit”, sarebbe Renzi: la cui posizione politica più qualificante, sia per la sua direzione del PD, sia per quella del Governo, è legata al Sì al Referendum, e con legame strettissimo. Su cui, però, secondo l’Economist, si dovrebbe votare No, perchè il Sì, in quanto riforma costituzionale, è carente di adeguatezza rispetto alle maggiori questioni istituzionali e politiche, Istruzione e Giustizia, esposte nel corso del commento (“fails to deal with the main problem”), cioè, ancora una volta, è “inadatto”. Ma anche Berlusconi, sostiene, accanto a chi lo ritenne “unfit”, il nuovo “unfit”.
Questo accostamento suggerisce un breve indugio su un aspetto specifico di questa estenuata campagna elettorale: quello delle “aggregazioni indesiderate ma inevitabili”. Come sappiamo, anche in questo caso, non è mancata la misura e l’autocontrollo: “accozzaglia”, “accozzaglia e mezzo”, e via così. Ma la faccenda, se da sola non è risolutiva (come nessun argomento in questo Referendum da solo è), non è neanche quel fastidioso e irrilevante pettegolezzo che pare taluni ritengano. Indubbiamente, questa reazione è stata più accentuata sul fronte del No.
Che una consultazione, promossa su due sole alternative cancelli tutte le sfumature che dal bianco giungono al grigio, e da questo al nero, è un’ovvietà. Ma, come spesso si rischia con le ovvietà, lo è meno di quanto appaia. Vale per la decisione: Si/No. Non vale, l’ovvietà, per le ragioni della decisione. E queste “sfumature”, una volta superato il voto, torneranno immediatamente ad occupare il proscenio che loro spetta, per dilaniarsi: o sui frutti della vittoria, o sulle responsabilità della sconfitta. E nemmeno qui ci si stupisce, dal momento che tutti, da Renzi a ciascuno dei suoi avversari, hanno così voluto.
Ora, che scrive l’Economist? E’ molto interessante, quello che scrive: perchè subito ci riconduce proprio alla questione delle “diverse anime”.
In primo luogo, scrive che il No sarebbe preferibile non per ragioni che riguardano questo o quell’aspetto della riforma: ma perchè, vincendo il No, Renzi sarebbe di fatto sfiduciato, e dovrebbe dimettersi. Ne seguirebbe la necessità di un Governo Tecnico, secondo l’autorevole settimanale. Il quale, cioè, se mai ce ne fosse ancora bisogno, afferma espressamente che il Referendum è un voto politico, anzi così intensamente politico, che dovrebbe auspicabilmente mettere capo ad una successione nel Governo. Voto politico al sommo grado e, ciò che più conta, di fatto, in via pressocchè esclusiva.
In secondo luogo, offre un articolato esempio di come il preteso contenuto giuridico-costituzionale possa essere ridotto a clausola di stile. Il problema dell’Italia, scrive, è “la non volontà di fare le riforme”; che è valutazione politica generale. Ma la proposta riforma è indubbiamente tale; ed allora si aggiunge che “comunque”, i “benefici secondari passerebbero in secondo piano rispetto agli svantaggi” (qui non ne sappiamo di più); ed ecco, invece, una valutazione “tecnica”. Il Senato sarebbe depotenziato e composto di “non eletti”; ancora una valutazione “tecnica”; ma aggiunge che gli amministratori locali sono quelli più corrotti (così, in linea generale), e che si gioverebbero tuttavia, in quanto Senatori, dell’immunità parlamentare: la quale, però, riguardando quanti, per estrazione istituzional-amministrativa, si certifica essere potenzialmente corrotti, si risolverebbe quindi in impunità; valutazione politica. Ma é anche vero che il bicameralismo perfetto, prosegue l’Economist, “è una ricetta per l’immobilità”; altra valutazione politica. Inoltre, con la nuova legge elettorale, vi sarebbe il rischio di un Governo Grillo (“The spectre of Mr Grillo as prime minister”): uno “spettro”, tale per molti in Italia, come in Europa, precisa, dando qui l’impressione di separare la sua opinione da quest’ultima (ma subito vedremo che così non è). In ogni caso, riconduce al Referendum un’altra valutazione politica, anzi, iperpolitica.
Ma proprio muovendo da quest’ultima considerazione, si affaccia l’elemento di maggiore interesse del suo commento. In terzo luogo, infatti, l’Economist scrive che il NO al Referendum sarebbe il terzo tassello, dopo Brexit e l’elezione di Trump, nell’affossamento dell’ordine internazionale. (“third domino in a toppling international order”). E così sembra mettere in cattiva luce la sua stessa posizione sul Referendum, considerato anche il lessico impiegato. Qui però, come accennavo, si coglie una specie di gioco di specchi: il rilievo sul “pericolo Grillo” sul carattere di “terzo tassello” populistico, infatti, viene presentato come quello di “altri”; il settimanale sembra divergere (“Yet this newspaper believes that…”): nega “l’affossamento”, non perchè, anche vincendo il NO, il M5S non dovrebbe essere considerato il vincitore, ma solo in forza della “sua” soluzione per l’Italia: il già rilevato Governo Tecnico. Tuttavia è una divergenza solo di superficie: anche l’Economist qualifica il M5S in termini negativi, presentandolo come un’Armata Brancaleone che mira all’uscita dall’Area Euro (“a discombobulated coalition that calls for a referendum on leaving the euro”).
Da un lato, dunque, viene riferito un orientamento di “altri”, molto preoccupato: che, alla fine dei conti, nell’ipotesi della vittoria del NO, individua nel M5S, e particolarmente in Grillo, il sommo beneficiario. Dall’altro, l’Economist, che pure vuole il NO, e pur condividendo il giudizio su Grillo, afferma che non c’è motivo di preoccuparsi, suggerendo che la soluzione, una volta caduto Renzi, non è necessariamente Grillo, ma quella solita, ormai, per l’Italia: un Governo Tecnico “(as it has many times in the past”).
Questa conclusione, che assomiglia ad un punto morto, è la migliore sintesi del garbuglio che si disconosce, quando si nicchia sul multiforme senso politico degli schieramenti a più “anime”.
Ma se mi sono soffermato sulla posizione dell’Economist, non è solo perché, sin dalla formazione dell’Unità, il Regno Unito “non si disinteressa” dell’Italia, (d’altra parte, da circa un anno, è di proprietà della famiglia Agnelli, attraverso la nota società finanziaria Exor); ma anche perchè svela, emblematicamente, una contraddizione non risolta. Il SI, metterebbe capo ad un “pericolo democratico”, un governo troppo forte, pericolo accresciuto dall’ipotesi che, in “combinato disposto”, alle prossime elezioni vinca il M5S; ma a questo stesso risultato, “pericolo M5S”, metterebbe capo anche il NO; giacchè, abbiamo visto che l’Economist condivide il giudizio politico su Grillo (sarebbe ugualmente lui il vincitore, pure del NO, e proporrebbe, anche senza “combinato disposto”, l’uscita dall’Euro); l’unica differenza, sarebbe che ad un “pericolo democratico” si porrebbe riparo con un Governo Tecnico, cioè “non democratico”.
Se però due strade conducono alla stessa meta, non due sono, ma una. Allora, perchè NO?