Martedì otto novembre, il mondo guarderà con trepidazione ai risultati delle elezioni presidenziali americane, una consultazione che, vista l’enorme influenza politica, economica e militare degli Stati Uniti nel mondo, ha sempre avuto una rilevanza considerevole non solo per l’America ma per l’intera comunità internazionale.
Malgrado l’importanza e la consequenzialità di questo processo tuttavia, vale la pena ricordare che il sistema elettorale americano è caratterizzato da moltissime stranezze e peculiarità che lo rendono unico tra le democrazie occidentali e non necessariamente nel senso migliore del termine.
In una democrazia degna di questo nome, ad esempio, è scontato che ogni voto valga esattamente quanto un altro e che, alla fine di una consultazione elettorale, si proceda al conteggio di questi voti assegnando la carica in palio al candidato o candidata che abbia ottenuto il maggior numero di preferenze.
Ma negli Stati Uniti, non è così. Nel 2000, al termine del contestatissimo e tristemente famoso ballottaggio tra Al Gore e George W. Bush, fu quest’ultimo ad insediarsi alla Casa Bianca, malgrado il fatto che il suo rivale democratico avesse ottenuto il maggior numero di voti a livello nazionale.
Come è possibile? E’ possibile grazie alla struttura particolare del sistema statunitense che è organizzato per “collegi elettorali” il che significa che ad eleggere il presidente non sono tanto i singoli cittadini quanto gli stati in cui questi cittadini risiedono.
Dei 538 voti totali che costituiscono la posta elettorale, ogni stato attribuisce a questo o quel candidato un certo numero di preferenze. Per non creare eccessive disparità, ad ogni stato vengono assegnati inizialmente tre voti elettorali a prescindere dalla popolazione che vi risiede. Il resto viene assegnato in base alla popolosità. La California ad esempio, che è lo stato più popoloso, attribuisce un totale di 55 voti mentre il Vermont, che è uno degli stati con il minor numero di abitanti, solo 3.
Perché il totale dei voti è proprio 538? Perché questo numero rappresenta la somma dei cento senatori (due per stato) e dei 438 deputati (eletti a seconda della popolosità dei singoli stati) che costituiscono il Congresso degli Stati Uniti.
Quando un americano si reca alle urne e compila la scheda con la sua preferenza dunque, quest’ultima non viene assegnata in maniera diretta al candidato per il quale l’elettore vota solo indirettamente. Agli inizi di novembre quindi, quando gli americani vanno a votare per eleggere il loro presidente, quello che fanno è comunicare le loro preferenze ai propri rappresentanti statali (una sorta di “grandi elettori”) i quali, a loro volta, dovranno procedere all’elezione vera e propria attraverso i voti collegiali (55 per la California; 38 per il Texas, 29 per New York e Florida fino ai 3 voti degli stati meno popolosi come Vermont, Wyoming, South Dakota e Montana). Il candidato che si aggiudica almeno 270 voti collegiali, vale a dire la maggioranza dei 538 in palio, vince le elezioni.
Il sistema non è proporzionale il che significa che quarantotto stati su cinquanta conferiscono la totalità dei loro voti collegiali al candidato che ha ottenuto la maggioranza delle preferenze dei propri abitanti. La Pennsylvania ad esempio, dispone di 20 voti e se un candidato vince la maggioranza anche grazie ad una sola preferenza, ottiene tutti e 20 voti collegiali della Pennsylvania. E qui sorgono i primi problemi di rappresentatività.
In Europa, dove ogni voto conta esattamente quanto un altro, gli elettori sanno che le loro preferenze individuali andranno a riempire il serbatoio di suffragi del loro candidato preferito a prescindere dal risultato finale. Il loro voto quindi, avrà comunque un valore reale nel conteggio definitivo. In America invece, se una persona con tendenze politiche di sinistra (giusto per fare un esempio) vive in uno stato con una solida propensione conservatrice che finisce regolarmente per votare a destra, il suo voto non avrà alcun valore alla resa dei conti, vista la mancanza di proporzionalità del sistema.
Un’altra cospicua fetta di popolazione che non dispone di alcuna rappresentatività, è costituita dagli abitanti dei territori americani d’oltremare. I residenti di Porto Rico, Guam, delle Isole Vergini Americane e delle Isole Mariane Settentrionali, pur potendo pronunciarsi nelle elezioni primarie, non hanno accesso alle urne nelle presidenziali perché, non essendo veri e propri stati, la costituzione non contempla per essi il diritto di voto a dispetto del fatto che la loro popolazione complessiva ammonti a quasi quattro milioni e mezzo di persone, vale a dire al numero di abitanti di stati come Wyoming, Vermont, Nord Dakota, Sud Dakota, Alaska e Delaware messi insieme.
Come se non bastasse, ad essere esclusi dal voto sono anche tutti i cittadini americani originari di altri stati ma che risiedono temporaneamente in questi territori rendendoli gli unici luoghi al mondo in cui un americano non ha il diritto di suffragio. Anzi, sono gli unici posti nell’universo in cui un cittadino statunitense non può votare dal momento che agli astronauti americani è consentito votare persino dallo spazio!
E le stravaganze made in USA non finiscono qui. Mentre in Italia, così come in molti paesi europei, i cittadini hanno l’opportunità di votare nel corso dei due giorni del fine settimana, negli Stati Uniti invece si vota solo un giorno e questo giorno, incredibilmente, cade sempre di martedì. Il motivo di questa stramberia ha radici religiose legate al fatto che, ai tempi della sua fondazione, l’America era un paese agrario e, per recarsi nella capitale della contea sede dei seggi elettorali, i sui abitanti avevano bisogno almeno di un giorno di viaggio a cavallo. Per questo motivo, il giorno della settimana scelto per le elezioni fu il martedì per non interferire con le funzioni religiose fissate per il fine settimana.
Il problema ovviamente, è che il voto di martedì, è molto più problematico perché coincide con una giornata lavorativa e malgrado il fatto che i datori di lavoro siano tenuti a concedere ai propri impiegati il tempo necessario per recarsi alle urne, in molti stati (per lo più a gestione repubblicana) non sono tenuti a pagarli. Questo significa che, per molte persone che vengono compensate ad ora, il tempo sottratto al lavoro per votare costituisce un costo sostanziale e, dal momento che i contratti ad ora includono per lo più i ceti sociali più modesti, il diritto di voto diventa un disincentivo economico per quei gruppi sociali meno agiati.
Ma la stranezza di gran lunga più sconcertante ha a che fare con la natura “mediata” del voto in sé stesso. Col fatto cioè che, invece di votare direttamente per il loro candidato favorito, i cittadini americani, con la loro preferenza, delegano ad un gruppo di rappresentanti statali nominati dai partiti (i succitati “grandi elettori”), il compito di esprimere queste preferenze a livello nazionale. Il numero di voti collegiali di cui ogni stato dispone (55 per la California, 38 per il Texas ecc.) non è altro che il numero di “grandi elettori” che ogni stato è autorizzato ad inviare a Washington per l’elezione collegiale vera e propria, quella che, tecnicamente, decide chi sarà l’inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni.
Ciò che è incredibile è che, malgrado il fatto che questi grandi elettori statali dovrebbero, in teoria, essere solo dei “messaggeri”, incaricati semplicemente di riferire le preferenze dei loro cittadini, in realtà, secondo la Costituzione, non sono necessariamente tenuti a farlo e, volendo, possono decidere di votare in maniera completamente diversa da quella espressa dalla maggioranza del proprio elettorato.
Questo è un punto che vale la pena ripetere: anche se le maggioranze degli abitanti del Kansas o della Luisiana, ad esempio, esprimono le loro preferenze per il candidato A, i delegati statali che esprimono il voto collegiale di questi stati, possono decidere di ignorare del tutto i voti di milioni di persone e di pronunciarsi invece per il candidato B, come è, in effetti, accaduto solo pochi giorni fa nello stato di Washington quando uno dei delegati democratici seguace di Bernie Sanders ha dichiarato che, anche nel caso che il suo stato decida di eleggere Hillary Clinton, lui si rifiuterà di avvallare questa scelta!
Questo aspetto sconvolgente del sistema americano è dovuto al fatto che nel 700, quando la Costituzione fu redatta e la struttura elettorale collegiale fu concepita, il metodo più veloce per inviare un’ informazione a Washington, vale a dire a centinaia di chilometri di distanza, era di scriverla su un pezzo di carta e di affidarla ad un corriere a cavallo incaricato di portarla nella capitale coprendo distanze enormi per l’epoca e sfidando mille pericoli lungo il tragitto. In seguito all’inefficienza di questo metodo, si decise di scartare questa soluzione e di inviare fisicamente a Washington i delegati dei singoli stati (i grandi elettori) incaricati di riferire all’assemblea elettorale le decisioni di voto dei propri cittadini.
Al giorno d’oggi, grazie alle fibre ottiche, l’informazione viaggia alla velocità della luce ma in America, per decidere le sorti della loro democrazia, sono rimasti ai tempi delle bestie da soma.