Al plenum del Consiglio superiore della magistratura (Csm) è scoppiata formalmente la grana del rapporto tra magistrati e politici. La questione è stata formalmente sollevata dal presidente della sesta commissione del Csm, Piergiorgio Morosini. Che ha presentato una proposta di delibera secondo la quale quei magistrati che accettano di svolgere attività politica attiva, completato il loro mandato, non possono più tornare nei Tribunali. Insomma, i magistrati che accettano di entrare nell’agone politico debbono dire addio alla toga.
Nel corso del dibattito che ne è seguito la componente laica del Csm ha subito caldeggiato la proposta e volevano addirittura inserirla subito nel Testo unico sulla dirigenza. L'operazione non è riuscita perché la componente togata ha votato compatta contro la proposta.
La questione, tuttavia, resta di attualità ed è stato deciso di dedicare la seduta del plenum del 20 settembre prossimo alla questione. Secondo Morosini, “il rapporto magistratura-politica è un tema centrale per la credibilità dell'ordine giudiziario. Una situazione che offusca l'immagine di imparzialità e di indipendenza dei giudici”. E insiste: “La legge ci vieta di prendere tessere di partito”. Quindi l’affondo: “I gruppi politici privi di autorevolezza cercano magistrati per darsi tono di credibilità”.
E' difficile dare torto a Morosini, perché, davanti al dilagare dell'illegalità e della corruzione, i magistrati reclutati “come candidati, ministri o assessori, rischiano di essere una specie di paravento usato nel tentativo di allontanare i sospetti, nonché di dare l'impressione che la loro presenza assicuri livelli di trasparenza del sistema politico-istituzionale, che purtroppo è marcio. Non dobbiamo mai dimenticare “gli indicibili accordi” che venivano trattati al Quirinale ai tempi di Giorgio Napolitano e magari quelli più remoti che costrinsero l'allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone alle dimissioni anticipate, richieste da Enrico Berlinguer.
La questione appare di non facile soluzione per la ragione che l'articolo 51 della Carta costituzionale, all'ultimo comma, dice che ogni cittadino può assumere incarichi politici e deve poter disporre del tempo necessario per espletarli e conservare il suo posto di lavoro. Laddove il prossimo 20 settembre il Plenum del Csm dovesse affrontare la questione non può prescindere dalla norma costituzionale e, pertanto, dovrebbe chiedere una modifica di essa. Occorre quindi un provvedimento legislativo di rango costituzionale.
Esistono, però, precedenti non remoti che dimostrano che qualche misura di qualche efficacia è possibile assumerla. Il riferimento è al caso che ha visto protagonista Antonio Ingroia, il quale, per motivi che non hanno nulla a che vedere con la politica attiva, ma che della sua partecipazione alla campagna elettorale è stato fatto uso, è stato messo nelle condizioni di dimettersi da magistrato. Ovvero, il caso di Luigi De Magistris, che nello svolgimento del suo lavoro avrà toccato gli interessi di qualche consorteria di intoccabili ed è stato messo anch'egli nelle condizioni di lasciare la magistratura.
Che il tema sollevato dal dottor Morosini sia reale non c'è dubbio alcuno, ma in costanza della norma costituzionale l'unica soluzione può essere trovata per via amministrativa. Cioè il magistrato reduce della politica torna a fare il suo lavoro, ma in altro distretto e con incarichi diversi da quelli requirenti o giudicanti. Anche questo, ove possibile, sarebbe un accorgimento dissuasivo per i magistrati che si lasciano lusingare dalla politica attiva.
La questione, dunque, è estremamente delicata e complessa e va trattata in punta di penna. Un esempio: l'incarico affidato al dottor Raffaele Cantone di curare l'organismo anti corruzione è da ritenere un incarico politico o no? La nomina è senz'altro di natura politica, ma il compito cui è stato chiamato non può ritenersi un'attività politica attiva. Non fa leggi, non amministra denaro pubblico, si limita ad applicare con rigore le leggi penali contro la corruzione ed a vigilare sull'attività amministrativa degli enti di natura pubblica e sulle procedure adottate nell'esercizio dei loro compiti d'istituto. Si configura, quindi, un incarico politico che non gli può impedire di essere reintegrato nel suo compito di magistrato alla fine del suo mandato.
Come si vede la questione è semplice e va trattata con attenzione.