La Commissione Antimafia ha compilato una lista di proscrizione. Una listarella, in verità: si tratta di diciassette candidati alle prossime elezioni regionali. Nomi minori, ad essere generosi, sconosciuti al grande ed anche al piccolo pubblico. Solo che la più parte riguardano la Campania, dov’è candidato, per il Partito Democratico, l‘ex Sindaco di Salerno Vincenzo De Luca. L’eccezione: perché questo, infatti, è un nome noto.
A Gennaio di quest’anno, è stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione per abuso d’ufficio; nel contesto della c.d. emergenza rifiuti campana, istituì un Project Manager nell’organigramma, e questa figura, secondo le scelte amministrative della Procura, non sarebbe stata possibile; la Procura ha il potere di rendere le sue scelte amministrative, oltre che insindacabili in quanto scaturite da un’investitura non elettiva, pure munite del vincolo giuridico-penale; perciò il processo e la condanna. Il Presidente del Consiglio Renzi, visto il contesto di smaccato rilievo politico-giudiziario, ha fortemente voluto la sua candidatura.
Ora, l’On. Rosy Bindi, Presidente, e l’On. Claudio Fava, Vice-presidente della Commissione Antimafia, hanno divulgato la lista. Di “impresentabili”. I nomi dei candidati sono formalmente noti da quarantacinque giorni. Alla mezzanotte sarà teoricamente vigente il c.d. silenzio preelettorale, per dare modo ai cittadini di accostarsi alle urne con animo sgombro da un eccesso di sobillata passione.
Certo, mentre dilaga l’uomo-uncino chino sul suo schermo palmare, e perennemente pronto a qualche fotoricordo per stare “in touch”, anche in selfie con la scheda elettorale appena vergata nella cabina, l’intimidatorio tempismo dell’On. Bindi parrebbe ridimensionarsi. Tuttavia, altro è la chiacchiera da bar o da corso trasferita sui social, altro è un pronunciamento formale di un organo parlamentare.
E’ tornata la coppia, il manganello e l’aspersorio, che Ernesto Rossi aveva denunciato per il tempo della dittatura fascista. Si aggiunga che l’effetto è moltiplicato dall’essere corrivamente in linea con tendenze e tecnologie tanto avvezze agli schiamazzi, alle ficcanasaggini, all’occhiuta invadenza.
Dicevo una parte della Commissione, visto che non tutti i suoi membri risulterebbero favorevoli all’iniziativa. Per es., il Sen. Enrico Buemi, dell’Ufficio di Presidenza, ha dichiarato che la Commissione non ha “alcun diritto di distribuire patenti di candidabilità”. Ma, purtroppo, si sbaglia.
Ed è questo il punto. Con una precisazione, che rende le cose ancora peggiori di quanto il Sen. Buemi pare ritenga. La Commissione può rilasciare tutte le patenti che vuole (vedremo subito quali); giacchè la Legge istitutiva della Commissione medesima (87/2013), all’art 1. comma 1 lett. f) (scusate il giuridico), prevede propriamente questo. Essa, tra le altre competenze, deve “… indagare sul rapporto tra mafia e politica… con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive…”.
La locuzione “selezione dei gruppi dirigenti”, in un contesto di indagine politica preventiva e di spiccata stigmatizzazione extragiudiziaria, rivela la sua natura esemplarmente totalitaria. Vale a dire: arbitrio e vessazione muniti del sigillo dello Stato. Com’è noto, infatti, per formulare questi severi giudizi, ci si avvale di veline provenienti unilateralmente dal fascicolo del Pubblico Ministero (non da sentenze). Perciò la Commissione può rilasciare patenti: ma di che cosa? Di “impresentabilità”, che è parolina diversa da “incandidabilità”.
Considerate: prima della Legge Severino, già essa di schietta matrice totalitaria, l’incandidabilità era connessa, nella materia penalistica, ad una condanna definitiva; dopo, si è fatta discendere da una condanna in primo grado. A quanto pare non bastava. Così, nell’Aprile 2013 (legge istituiva della Commissione Antimafia), si è inscenata questa condizione melliflua e sfuggente, “l’impresentabilità”.
S’intende che non siamo giunti a questa miseria etica e voluttuosamente cannibalesca per caso, o d’improvviso. Si è cominciato con gli avvisi di garanzia al tempo di Tangentopoli (mentre scrivevo, al posto di “tempo” mi era scappato “tempio”: quasi quasi lo lasciavo), e poi, di passo in passo, si è “normalizzata” la prevalenza della morsa inquisitoria sulla scelta politica: cioè sul cittadino che, per effetto di queste “tutele preventive della moralità”, viene deliberatamente ridotto ad inaffidabile comparsa del proscenio democratico, che è proficuo esautorare ed umiliare.
Qui si è fatto, però, un passo avanti (anzi: indietro). Lo stadio nuovo è che si diviene “impresentabili” (che, non a caso, è tipicamente rozza nomenclatura da delazione in portineria o da tramestio nel sottoscala) perchè una Commissione Bicamerale della Repubblica può legittimamente rimestare fra il liquame investigativo, come un qualsiasi lacchè di un giornalino di terz’ordine: e sostituire così l’allusione, il sospetto, il venticello della calunnia, alla libertà dello scontro politico.
Non deve trarre in inganno l’apparente sproporzione fra il cabotaggio delle persone coinvolte (sia pure per colpire un obiettivo di medio calibro) e la gravità sistemica di questa “svolta”. Conta introdurre il principio, aprire la breccia. Oggi con delle figure semianonime, domani con quelli che interessano veramente.
Ovviamente, il Presidente del Consiglio fa bene a porre la questione De Luca. Dovrebbe anche, come minima misura immediata, abrogare la Legge Severino. Ma riesce difficile, al riguardo, attendersi azioni di ampiezza adeguata: Renzi si ostina a pensare di poter interloquire nei limiti della contesa ordinariamente politica (mosse, tweet, nomine, dichiarazioni).
Per il tumore ci vuole il bisturi (e, se piace, a sostegno, pure una preghiera.) L’aspirina lascia fare: con il tumore, l’aspirina uccide.