La Camera ha appena approvato una legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Scusate l’autocitazione, ma qui avevo già scritto: “Libertà personale, denaro, serenità, reputazione: in Tribunale si possono perdere senza motivo alcune di queste cose o tutte. Perciò sembrerebbe ovvio che si sancisca, cioè si riconosca formalmente, la responsabilità di cui si discute. E che, per funzionare, sia una responsabilità personale. Che debba nuocere, debba far male. Altrimenti, come ognuno sa, si risolverebbe in una finzione…Il corrente vaniloquio su responsabilità diretta o indiretta serve solo a mascherare questa elementare verità: bisogna pagare di persona. Come si pretende da ognuno, quando si accerta che ha usato male il suo potere”.
Quanto al principio, cioè alla “responsabilità civile” dei magistrati, ovviamente, non è cambiato nulla. E sul principio protesti chi vuole.
Tuttavia oggi abbiamo “una” legge, cioè questa, concreta, legge: che, invece, si dovrebbe poter discutere: ma non si può. Perchè? A causa di un “non detto”, che oggi accomuna riformatori e riformati. Il “non detto” è l’esistenza in Italia di una “Giustizia Politica”. Che è la filigrana della vicenda repubblicana: peraltro rivendicata, sin dai primi anni ’80, con la locuzione meno chiara di “potere supplente”. Provo a riassumere.
Il Dottor Gherardo Colombo, cui si deve la formulazione più dotta e non reticente (come pare usi oggi), su Quaderni Giustizia, organo ufficiale di MD, alla fine del 1983 scriveva: “…l’imposizione alla magistratura di un’attività di supplenza…ha portato necessariamente l’ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere d’intervento istituzionalmente riservate ad altri… “. “L’imposizione” derivava dalla “…mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica…”. Perciò la magistratura più consapevole doveva fare l’Opposizione: “una serie di motivi contingenti rende del tutto impraticabile…una prospettiva immediata di ritorno alla terzietà…”; siamo fuori della Costituzione, e il Dott. Colombo lo sa: “chiunque converrebbe sull’abnormità [del fatto] che una funzione delicata e complessa, e che involge necessariamente responsabilità politiche, sia svolta istituzionalmente da dipendenti dello Stato nominati per concorso…”; però, non bisogna scoraggiarsi, essendo possibile una “redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri, nella quale l’ordine giudiziario sia chiamato a svolgere permanentemente una funzione nuova…”. Non c’è che dire: chiaro come il sole. Giustizia Politica in statu nascendi.
Ma per giungere a quella “redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri” e, per di più, “permanentemente”, non c’erano allora le “condizioni”. Poi, caduti i muri, le “condizioni” ci furono e venne Tangentopoli. Non dimentichiamo che siamo nel 2015, e che stiamo (si può?) discutendo di responsabilità civile dei magistrati. Dicevo che finalmente vennero le “condizioni”: per fare che? La “funzione nuova”. Lo spiega il Dott. Francesco Saverio Borrelli, su Micromega, alla fine del 1995, quando la “funzione nuova”, come si ricorderà, era a pieno regime da più di tre anni: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali”. Affiorano le matrici: Hostis Rei Publicae, Eretici, Infedeli, Nemici del Popolo.
Non male. Si era già, dunque, conseguita l’Opposizione politica ad opera della magistratura inquirente, con i suoi tipici strumenti (1983); quindi, la “serie di motivi contingenti” (Colombo) si era stabilizzata, dando luogo alle “situazioni di emergenza” (Borrelli), che rendevano “indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico” (1995). Ma non bastava ancora: essendo “la politica il nerbo della potenza mafiosa”, come certificavano i Dott.ri Ingroia e Scarpinato, su Micromega, all’inizio del 2003, bisognava fare un altro passo: “…bisogna “sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica”, se del caso, anche “contro la stessa volonta’ della maggioranza”. Fermiamoci qui: che può bastare.
E torniamo a Renzi e al “non detto” che impedisce la (reale) discussione su filtri, rivalse dello Stato sul singolo magistrato, “valanghe di ricorsi” e tutto quello che sentirete strillare nelle prossime settimane. E che forse spiega anche il velenoso “zuccherino” della pena mutilante per la corruzione: da cui traspare un’idea del magistrato italiano inavvertitamente offensiva, quasi fosse un boia che si nutrisse di pane e galera (altrui).
Infatti, se in Italia non ci fosse la Giustizia Politica, un’Associazione privata (ANM), che ha infeudato l’Ordine Giudiziario, non convocherebbe il Presidente della Repubblica, come fosse l’usciere di Don Salvatore anzichè (anche) il Presidente del CSM (Feudo Grande: come certe contrade del Sud), intimandogli, con prosopopea melliflua, di darsi una mossa: ha chiesto, l’ANM, un incontro “e confida che sia fissato in tempi ragionevoli” e, siccome questa è grossa, prova a mettere una pezza che è ancora peggiore del buco: “anche se non vogliamo tirare il Capo dello Stato per la giacchetta”; nè, l’Occupante Feudale, direbbe scempiaggini come “la responsabilità diretta è un obbrobbrio istituzionale che non esiste in nessun Paese”; è una scempiaggine perchè in nessun Paese la magistratura assomma una misura intollerabilmente premoderna di privilegi come in Italia. Non c’è il meno, altrove, perchè c’è il più. Vediamo.
In Francia, come in Italia, la magistratura giudicante, assise (seduta) e quella requirente, debout (in piedi), sono reclutate unitariamente, come da noi: ma diversamente che da noi, a) si diventa magistrato ordinario non per concorso diretto ma attraverso l’Ecole National de la Magistrature (solo lì si accede per concorso) e, dopo un tirocinio teorico-pratico di 31 mesi, è previsto un secondo esame; b) il Pubblico Ministero è sottoposto al Ministro della Giustizia, c) l’azione penale non è obbligatoria ma opportuna; dal 1993, le istruzioni del Ministro, da cui dipendono anche le promozioni –al CSM francese è dato esprimere solo un parere non vincolante-, sono scritte (cioè ancora più stringenti), giacchè i pubblici ministeri sono “agenti del potere esecutivo presso i tribunali”. Così non piace?
In Germania non solo la “responsabilità politica” è gemella di quella francese, ma è pure inserita e articolata sul sistema dei Lander: i pubblici ministeri federali sono nominati dal Ministro della Giustizia federale, con obbligo di ratifica della Camera Alta e quelli statali, da quello federale; sia i pubblici ministeri federali che quelli statali sono “funzionari della pubblica amministrazione”, ed anzi, nella maggior parte dei Lander il loro status è quello di “funzionari politici”. Ovviamente sono tenuti ad obbedire alle direttive del superiore gerarchico, il Ministro, in ultima istanza, che, a sua volta, risponde al Parlamento come “capo della pubblica accusa”. L’azione penale è obbligatoria per alcuni reati, opportuna per quelli di minore portata. I magistrati giudicanti, con qualche variazione in ambito federale, devono superare tre esami, intermediati da periodi di addestramento non inferiori complessivamente a cinque anni. Non piace nemmeno così?
Negli Stati Uniti, oltre alla doppia struttura federale e statale, la responsabilità è connessa e affidata già al sistema di reclutamento, e alla conseguente distinzione fra giudicanti e accusatori: i pubblici ministeri, in ambito statale, sono per lo più eletti; e, in ambito federale, suddiviso in distretti, sono istituiti con nomina Presidenziale, ratificata dal Senato; ogni Procuratore Distrettuale è proposto dall’Attorney General (assimilabile al Ministro della Giustizia), dura 4 anni, è revocabile dal Presidente, e nel processo di nomina riveste un ruolo non marginale la c.d. senatorial courtesy: per cui, coinvolgendosi i due senatori dello stato in cui il pubblico ministero svolgerà le sue funzioni, si prevede un’ulteriore istanza di responsabilità. L’azione penale americana è il regno del plea bergaining, cioè del patteggiamento, di cui si deve rispondere. I giudici sono nominati e, con varie modulazioni, un ruolo comunque decisivo è assolto dagli avvocati (American bar association) Non va bene neanche questo?
Nel Regno Unito, oltre alla diversità di reclutamento e carriere fra giudicanti e accusatori, la responsabilità politica per l’azione penale è del pari accentuata: l’Attorney General è membro del Governo, e dal 1986 nomina il DPP (Director of public Prosecutions) da cui dipendono 42 Chief Crown Prosecutor; i rapporti fra DPP e Attorney General riflettono una consuetudine che, di fatto, rende piuttosto indipendente il primo dal secondo; ma c’è un però, anzi due: tutti questi funzionari sono reclutati dalle fila dei barrister, cioè avvocati di prolungata esperienza giudiziaria; e la polizia non dipende dal Pubblico Ministero, tranne quella di Londra; le altre rispondono a comitati territoriali in cui sono rappresentati gli enti locali e i tribunali corrispondenti. Quanto ai giudicanti, i giudici inglesi possono essere considerati un’emanazione dell’avvocatura, e dopo una non anonima carriera: prima dei 50 anni se lo sognano di poter mandare qualcuno in galera.
Per concludere sulla dimensione comparativa, corrivamente invocata, a Vostro Onore suggerirei la lettura di un saggio del 2003, comparso sull’ Ohio State Law Journal, in cui il Prof. B. Cross esamina l’Ordine giudiziario dell’Iran: è pressocchè impossibile distinguerlo da quello italiano, anche, e soprattutto per le implicazioni teocratico-meneghine cui si accennava prima. Ve lo immaginate Bernardo Guy che discute della sua responsabilità? In un luogo infestato dal Diavolo?
Se in Italia non ci fosse la Giustizia Politica, si farebbe come oggi osservava Carlo Nordio (nemo propheta in patria): “un magistrato che manda in galera una persona contra legem non deve pagare: deve essere buttato fuori dalla magistratura”.