Anche alla luce dei messaggi di Leopolda 5, si può ragionare sul progetto che il nostro presidente del Consiglio sta portando avanti, distinguendone le fasi tattiche da quelle strategiche. Al centro di tutto appare l’obiettivo di un “ordine nuovo”, non destinato necessariamente a passare attraverso il cambio di regime o di costituzione (non si pensi a De Gaulle che, in piena crisi algerina, fonda la Quinta Repubblica), ma che non potrà non portare a modifiche di prassi e assetti istituzionali.
L’espressione “ordine nuovo” appartiene ad Antonio Gramsci, intellettuale profondo e fondatore del Partito comunista. In un contesto storico diverso, ricompare in Renzi la medesima esigenza che interpellò l’uomo di Turi: dare all’Italia un’organizzazione socio-economica e politica che la tiri fuori dalla palude dei suoi vizi profondi, mai seriamente aggrediti dal ceto dirigente. Medesima è la consapevolezza della radicalità del cambio necessario in termini sociali ed economici, e della trasformazione che deve adottare la forma stato se vuole accompagnarlo e ottenerlo.
Sotto bonomia e simpatia comunicazionale, Matteo Renzi è indubbiamente uomo d’ordine, intendendosi con l’espressione uno che punta ad instaurare disciplina e rispetto delle regole che impone, perché si possano raggiungere i fini che prefissa. Dice molto la frase pronunciata dal primo ministro alla vigilia di Leopolda 5, richiamando quanto gli sarebbe capitato di comprendere in occasione della prima Leopolda, nel 2011: “che l’Italia era scalabile”, ovvero conquistabile: come un’azienda quotata in borsa. Da qui l’operazione “rottamazione” degli antagonisti nel partito e, una volta a capo del governo, fuori dal partito, con riguardo a poltrone e posti di sottopotere. Da qui l’organizzazione dell’inner magical circle di fedelissimi, presi anche dal nulla e portati al vertice del partito Democratico e dell’amministrazione, e in Consiglio dei ministri. Da qui, soprattutto, il metodo, nelle riforme, che trasferisce de facto la potestà legislativa dentro il governo e attenua la rilevanza del confronto con i portatori di interessi e le parti sociali. Il trattamento riservato al più grande sindacato italiano, Cgil, che ha fatto dire al suo leader, Susanna Camusso, di trovarsi in una situazione “surreale”, è prova provata di dove possa spingersi quel modello di “ordine”.
Sui connotati di “novità”, ed è qui che Renzi chiede alla gente un consenso che vuole superiore al 50%, non sono leciti dubbi. Il concetto di partito della nazione, proposto agli attoniti colleghi Pd, accentua l’esigenza del rapporto diretto tra leader ed elettorato, riducendo il peso di istituzioni e corpi intermedi, rilevanti solo se funzionali al progetto di governo del primo ministro. Il tutto nel segno dell’efficienza e dell’urgenza necessarie a salvare la nazione dal baratro.
L’"ordine nuovo” può soffrire crepe sostanziose, già nel breve. Si fonda sul patto con Berlusconi: difficile sostenere che il “nuovo” alberghi colà. Non ha sinora prodotto svolte significative in economia e sociale: si è anzi accentuata la conflittualità, mentre i macrodati continuano a peggiorare. Lo stesso primo ministro riconosce che la ripresa si avrà solo in primavera.
L’”ordine” renziano appare autoreferenziale e convinto di dover tirar dritto verso la meta, impermeabile alle domande che giungono dalle rappresentanze di interessi. Di conseguenza, rifugge dal confronto con le situazioni, interne ed esterne, non in sintonia col suo progetto: atteggiamento che tendenzialmente creerà tensioni, specie in ambito Ue, difficili da stemperare. L’”Ordine nuovo” fa capire di volersi fondare sulla praxis, come non avesse bisogno di padri ideali, né di una precisa collocazione politica che lo alimenti e limiti.