Nella Galleria dei presidenti, all’interno del palazzo di Montecitorio, sede del parlamento italiano, è attualmente in bella vista Allegoria dell’Europa di Giovanni Camillo Sagrestani. È un’enorme tela (340 x 517) che l’innovatore fiorentino del barocco realizzò nel contesto di una serie di allegorie sui continenti della Terra. Collocato a palazzo Pitti e ridotto in stato miserando, il dipinto è da giugno a Roma affidato alle cure di restauratori che gli hanno restituito lucentezza ed eccellenza. Immobile di fronte alla tela, tra la frotta di parlamentari e lobbisti presi dai loro conciliaboli, mi sono chiesto se vi fosse allegoria nell’allegoria, ovvero se il parlamento repubblicano, nell’impegnarsi a favore del dipinto, avesse anche operato una scelta pro-Europa, in coincidenza con la scialba anche se scoppiettante presidenza Renzi del Consiglio europeo.
Sagrestani trasmette l’idea di un’Europa pingue e riverita, circondata da graziosi amorini e ossequienti famigli. Da un secolo, dal suicidio consensuale della prima guerra mondiale con lo sbocco successivo verso dittature e seconda grande guerra, quell’Europa è finita. Le Comunità sorte da Adenauer, dagli Schuman e De Gasperi; l’Unione voluta da Kohl, e dai latini Spinelli Mitterrand e Delors, sono il tentativo di far riprendere al continente umiliato e smembrato, un posto nella storia. Difficilmente l’Europa tornerà ai fasti glorificati da un dipinto come quello del Sagrestani, ma che almeno sopravviva prospera e pacificata agli orrori compiuti dai suoi nazionalismi: questo l’auspicio dei padri delle istituzioni prima comuni e poi unionali.
I nemici di quel progetto sono le forze esterne che attendono di mettere i loro artigli su ricchezze benessere e libertà del vecchio continente, e le forze interne che ambiscono a riportare le lancette della storia ai fasti del nazionalismo. Coincidono nel volere che le istituzioni comuni siano deboli, si torni al metodo intergovernativo assoluto, si mandi alla malora l’euro, si abolisca la primazia del diritto comunitario, si adotti l’indisciplina dei bilanci nazionali rispetto all’indispensabile equilibrio dei conti. Ma nemici sono anche i pasdaran, annidati nella Commissione europea e nei governi, del rigore a tutti i costi, del pacifismo beota in politica estera (pacifico e pacifista sono cose diverse), del rifiuto alle indispensabili riforme strutturali dell’Unione.
Al sesto anno dall’apertura della crisi economica e sociale, l’Europa appare, in molte sue regioni, fiaccata e sfiduciata. Di fronte alla globalizzazione, diversi elettorati risultano disorientati, facile preda di movimenti qualunquistici e sciovinistici. Nella maggior parte dei casi, l’innesto delle nuove democrazie orientali si è confermato un rischio mal calcolato; al tempo stesso vasti pezzi del meridione sono tornati ad essere le zone a sviluppo ritardato degli anni ’70. L’UE deve cambiare passo e assumere la leadership del cambiamento: occorre riconciliare integrazione politica ed economica, e solo le istituzioni comuni possono farlo, rispondendo ad una sfida che deve costituire la priorità della sua azione nella seconda metà del decennio.
Spiace rilevare che la presidenza Renzi del Consiglio europeo non abbia sposato questa sfida, avendo scelto, per certi versi comprensibilmente, la ribalta del semestre per far transitare nell’agenda comune stile e contenuti del suo programma di rilancio di investimenti e consumi in Italia. Come mostrano l’uscita irlandese dalla crisi, certi segnali positivi che vengono dalle nazioni iberiche e dalla stessa Grecia, è solo il “metodo comunitario” che potrà tirarci fuori dai guai nei quali ci siamo cacciati negli anni del lassismo e della corruzione eretta a sistema.