Il Governo Renzi pare abbia raggiunto la sua velocità di crociera. Non naviga a vista, segue una rotta. Avvia la riforma del Senato. Trova i soldi per gli 80 euro ai più ricchi fra i più poveri. Scandisce una voce non querula con Bruxelles ed allontana al 2016 una stretta fiscale che oggi riuscirebbe inibitoria e mutilante per una ripresa che appena sembra vagire. Rinnova i vertici delle maggiori società economicamente pubbliche senza strepiti, e con una quota rosa di fatto che, a questo grado di responsabilità, non s’era mai vista così massiccia. Si tratta di passi iniziali e il cui reale valore politico potrebbe svanire: la riforma insabbiarsi; il bonus nelle buste paga più sottili risolversi in un’isolata pacca sulla spalla; il negoziato con l’Unione Europea rivelare un prezzo nascosto o semplicemente esoso: come la parola “dismissioni”, subito offerta quale pegno di perdurante buona volontà contabile, ove non sufficientemente precisata potrebbe certo comportare; e le nuove presidenti perdersi nella dimensione di una vetrina.
Tuttavia gli indizi sono buoni, i segnali incoraggianti, se si pensa che nell’arte di governare, quando tale è, a volte conta più l’andamento che l’equipaggiamento, più la direzione che la velocità. Così, in campo economico e finanziario, tanto impietosamente nevralgico, siamo autorizzati a nutrire accorta fiducia.
Ma, come si dice, non si campa di solo pane. E la politica – lo si può perlomeno auspicare – non è solo economia. Ci sono altri ambiti in cui questo profilo del Governo Renzi, sospeso fra gemmazione e appassimento, si sta riproponendo. L’ambito più fuligginoso è e rimane quello della giurisdizione penale. E, se si veleggia nei mari del Sud, la fuliggine sempre si ispessisce del sulfureo alito antimafia.
Quando si presentò al Parlamento per il voto di fiducia, il presidente del Consiglio, esibendo il suo arioso e rutilante scadenzario, disse che avrebbe affrontato la questione della Giustizia, la sua riforma, il suo ambito, a Giugno. Perciò, a ben vedere, non avremmo nulla di cui parlare. Anche qui ci sono degli indizi, però. Un primo significativo indizio, a questo proposito, lo abbiamo avuto già nell’atto di insediarsi. Avere indicato Giugno, come "il tempo della Giustizia", cioè quello immediatamente successivo alle elezioni europee, induce a ritenere che sapesse già allora quanto la guerra fosse l'unico strumento realistico per occuparsene. Sapeva e sa che deve arrivarci più forte: perciò le europee; perciò, per vincerle, mani libere sulle riforme, senza impegnarsi subito su quel fronte.
Un secondo indizio fu l'affermazione, capitale, che equiparava i contendenti sul piano della "calcificazione ideologica". Cioè, disse che Berlusconi e i suoi accusatori sono parti di una contesa, non che si era andata affermando negli anni la giurisdizione e un reo vi si era voluto sottrarre; non da una parte una sentenza, dall'altra un colpevole. No: disse di non credere che "nessuno possa convincere l'altro che si è compiuto un errore, o che si è fatto bene". Perciò, si pose in una posizione di equidistanza rispetto al sedicente accertamento legale di responsabilità. In sintesi, riconobbe la natura distorta, cioè politica, dell'accertamento giudiziario penale su Berlusconi. Quanto meno, questo è ciò che si può ragionevolmente argomentare da quelle parole di Renzi.
Dopo, più nulla. Fino all’approvazione del nuovo reato di scambio elettorale politico-mafioso. Un terzo indizio, di segno decisamente contrario. È un’aberrazione, perché è norma tagliata su misura per fare della più deteriore e soggettivistica sociologia l’unico filtro tra la libertà politica e una pena fino a dieci anni di reclusione. Diciamo che certe aree del Paese sono state dichiarate, ex lege, incapaci d’intendere e di volere, e che una vigilanza con un lessico a metà fra Di Pietro e Ingroia ne è stata istituita irresponsabile tutrice. Ne riparleremo.
Ma questo potrebbe non essere un ulteriore indizio. Potrebbe essere un necessario prezzo pre-elettorale (uno scambio?) che Renzi ha dovuto pagare per non rischiare troppi voti tra le schiere dei facinorosi di professione. Infatti, c’è un quarto indizio che, specie negli ultimi tempi, ha assunto un significato forte. È la candidatura del professor Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale nell’università di Palermo. Il professor Fiandaca ha più volte commentato il processo sulla c.d. trattativa stato-mafia, demolendone la fondatezza giuridica. L’autorevolezza delle sue critiche è stata implicitamente riconosciuta in primo luogo dai suoi stessi detrattori, che non gli hanno risparmiato invettive viscide e violente fino e oltre l’insulto. D’altra parte, la sedicente cultura della legalità è nota in ogni suo aspetto. Inoltre, per non lasciare le cose in sospeso, con Laterza ha pubblicato, insieme a Salvatore Lupo, anch’egli dell’ateneo palermitano, un saggio il cui titolo pesa come una lapide sepolcrale su certo “bisogno di mafia”: il titolo è: La mafia non ha vinto. Leggetelo: e poi andate a votare.