Quando, poco dopo il mio arrivo negli Stati Uniti, ho iniziato ad interessarmi alla politica americana, una delle cose che mi ha lasciato piú perplesso é stata la disinvoltura con la quale il termine “socialismo” veniva utilizzato in questo paese, soprattutto negli ambienti conservatori.
Mi ci é voluto un po' per capire a cosa si riferissero gli americani con questa parola dal momento che, come mi é parso evidente sin dall'inizio, nell'America degli anni 90 non solo non esisteva alcun partito politico le cui intenzioni fossero dichiaratamente socialiste, ma persino il movimento sindacale, all'epoca, aveva iniziato il suo graduale processo di declino proprio nel momento in cui la disparitá sociale andava inesorabilmente aumentando.
Solo dopo un po' mi sono reso conto che gli americani parlano cosí facilmente e frequentemente di “socialismo” perché non hanno la minima idea del suo significato.
Socialismo é un termine che descrive uno specifico modello sociale, politico ed economico delineato agli albori della Rivoluzione Industriale da Karl Marx e che sostiene, tra le altre cose, l'abolizione della proprietá privata e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, vale a dire il controllo totale dello stato sull'economia.
E' ovvio che queste sono circostanze lontane anni-luce dalla realtá politica, sociale ed economica degli Stati Uniti dove, se non altro, il problema é esattamente l'opposto: le ingerenze e le pressioni sull'attivitá legislativa esercitate dalle lobby che rappresentano questo o quell'interesse economico.
In altre parole, il controllo dell'economia sullo stato.
Allarmarsi per una presunta “deriva socialista” in un paese come l'America dunque, é ridicolo come preoccuparsi delle inondazioni nel deserto del Sahara.
Chiunque abbia studiato un minimo l'argomento, sa che i sistemi economici di quasi tutti i paesi della mondo sono misti, vale a dire contengono in sé elementi di spesa pubblica e di iniziativa privata con la prima che, di solito, cerca di incoraggiare lo sviluppo della seconda. Questa commistione di pubblico e privato sembra essere la combinazione vincente per una vigorosa crescita economica e quei paesi che invece hanno tentato di eliminare uno di questi due fattori dai loro modelli di sviluppo (come l'Unione Sovietica dopo la rivoluzione bolscevica) hanno fallito miseramente nel loro intento. Anche la Cina, che si dichiara, teoricamente, un paese “comunista” deve la sua fenomenale crescita all'adozione, a tutti gli effetti, dei principi del capitalismo di stampo occidentale.
Allo stesso tempo, c'é da chiedersi in quanti, persino in America, il paese piú “capitalista” al mondo, apprezzerebbero una societá completamente priva di una sfera pubblica.
In un mondo “puramente capitalista” non esisterebbero strade o sistemi fognari costruiti con fondi pubblici. Senza le tasse necessarie a pagare polizia e vigili del fuoco, non esisterebbe quella percezione di “pubblica sicurezza” che favorisce, tra le altre cose, il commercio e l'iniziativa privata. Non vi sarebbe un sistema giudiziario in grado di mantenere un clima di imparziale legalitá. I livelli qualitativi dell'educazione e dell'assistenza sanitaria sarebbero commisurati alle disponibilitá economiche dei suoi fruitori e, non solo non ci sarebbe alcun programma di assistenza sociale come Social Security, Medicare o i sussidi per la disoccupazione ma non esisterebbe neanche un esercito nazionale in grado di difendere la sovranitá del paese.
Quello che i conservatori americani tendono a stigmatizzare come “socialismo” quindi, non é altro che il polo progressista sullo spettro ideologico del dibattito politico del paese.
Ma allora, se non si tratta di socialismo, perché continuare a definirlo come tale?
Perché l'America é un paese la cui cultura ama le distinzioni nette (noi e loro; i buoni e i cattivi; il bene e il male) e per decenni, durante la Guerra Fredda, il termine “socialismo” ha evocato, nella psiche collettiva americana, tutta una serie di connotazioni negative che, ancora oggi, restano associate ad essa. Malgrado la parola non abbia nulla a che fare con la realtá, il suo utilizzo é efficace perché porta in sé tutta la valenza propagandistica del passato.
Ogni qualvolta che il presidente Barack Obama e i Democratici tentano di adottare politiche progressiste tese alla salvaguardia delle classi sociali piú vulnerabili, l'opposizione repubblicana non manca un'occasione per rispolverare gli spettri del bolscevismo e degli espropri proletari attraverso parole chiave come appunto “socialism” e “redistribution”, un altro termine favorito dai ripetitori della propoaganda di destra.
Di fronte all'uso spregiudicato di questa tecnica, i progressisti dovrebbero imparare a fare altrettanto.
La difesa ad oltranza degli interessi economici delle minoranze egemoni in barba alle condizioni delle classi medie e medio-basse; l'enfasi sull'importanza sociale dei valori religiosi e tradizionali e la convizione sulla superioritá di specifiche tipologie etnico-culturali sono tutti tratti riconducibili, in maniera piú o meno esplicita, all'attuale movimento conservatore americano.
Ma essi si ricollegano anche ad un altro fenomeno storico ben preciso: il fascismo.
La sinistra democratica potrebbe ripagare l'opposizione con la stessa moneta accusando i repubblicani di fascismo ogni volta che si oppongono ad un aumento delle tasse sui ricchi, all'espansione di Medicaid o di fronte ad ogni tentativo di sabotare l'accesso alle urne da parte delle minoranze etniche.
Una tattica del genere avrebbe l'effetto di aumentare quella tendenza all'iperbole tipica del dibattito politico americano ma potrebbe, allo stesso tempo, stimolare la curiositá degli elettori spingendoli ad informarsi, una volta tanto, sul significato effettivo delle parole.