Chissà se Barbara Spinelli oggi sente “L’odore marcio del compromesso”, quello stesso che scrisse di avere avvertito a metà luglio, quando il Presidente del Consiglio Letta intervenne a sostegno del ministro Alfano sul caso Shalabayeva. Come si senta il senatore Berlusconi, la fucina di ogni marcio, il maelstrom di ogni virtù, il Sisifo del delitto, come certificato da atti e procedure e uomini con tutti i timbri e le marche da bollo al loro posto, è noto: lo dice il suo volto smarrito e smagliato, prima ancora delle sue ondivaganti dichiarazioni.

La giornalista Barbara Spinelli, editorialista de La Repubblica
La Spinelli, questa Pizia del tecno-dominio europeo, questa cultrice dello strabismo morale, esprime il pensiero del “Palasharp”, la Scientology della Costituzione militante, l’italietta verbosa delle professoresse col cerchietto in morbosa cooptazione di bambini parlanti, claqueurs in perenne deliquio per solenni tromboni autoreferenziati. Tutti solidalmente uniti da privilegio contrattual-generazionale a tempo indeterminato. Quando discettava dell’affair Shalabayeva, scrisse che noi poveri ilòti, (scriveva “noi”, ma si leggeva “voi”), italiani servili e asserviti (secondo il profondo pensiero, fra gli altri, espresso in suo recente saggio, “La libertà dei servi”, da un altro luminare del MondoPalasharp, il Prof. Maurizio Viroli), non c’indignavamo abbastanza (espressione consigliata), perché “abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie”.
L’altroieri, in vista del siparietto senatoriale sulla fiducia al governo Letta, poiché, come osserverebbe Goethe, i suoi articoli “sembrano scritti non perché da essi si impari qualcosa, ma perché si sappia che l’autore sapeva qualcosa”, ha osservato che l’orleanismo, da Filippo D’Orleans, che fu reggente al posto di Luigi XV (un bambino di cinque anni che, in questa fenomenale arditezza allegorico-metaforica, sarebbe “tutto ciò che non è Palasharp”), è sinonimo di governi brevi, occupati e oppressi dalle angustie dei conti. Perciò, siccome in questi governicchi (o piccoli e deboli governi-bambino) si abdica dalla politica per la ragioneria, l’orleanismo (pare d’intendere: complice la miopia computistica e la debolezza politica) è sinonimo di consorterie, di cricche.
Ora, poiché l’Italia è sotto tutela franco-tedesca, prosegue, questa volta senza particolari fremiti o indignazioni (d’altra parte lei vive a Parigi, perciò, come sempre, sarebbe dalla parte giusta: noblesse oblige), c’è un unico modo per trarre utilità da questo frangente “orleanistico”. Secondo questa vestale della scrittura farcita, questa donna degna del Plutarco che verrà, per scongiurare l’inanità orleanistica, la sola via è aggrapparsi allo “Spirito della Costituzione”. Con il varo di un inedito ma utilissimo strumento: la custodia cautelare in carcere a gentile e pubblica richiesta (purchè, ca va sans dire, si tratti di un pubblico “ceto-mediamente” riflessivo). Fatto questo, tutto andrà a posto. Manco a dire chi dovrebbe essere onorato dalla primizia hegelo-penitenziaria.
E che fine ha fatto quell’odore marcio, sorto al tempo della Shalabayeva (poco più di due mesi fa) dal duo Letta-Alfano, e innalzatosi fino alle narici parigine della nostra? Dobbiamo ritenere che sia evaporato, giacchè, seguendolo, avrebbe condotto fino alla ridente sagoma di Romano Prodi, pur’esso (naturalmente) aulico e assai beneficato consigliere del “cattivo kazako”: e se così fosse stato, lei ce l’avrebbe senz’altro detto. Nel silenzio, pertanto, la conclusione è ovviamente obbligata: l’odore è svanito.
E’ una fortuna che quell’odore di marcio non sia più o, con il soffio dello Spirito costituzional-celerino, sia ad ogni modo in via di evaporazione. Tuttavia, se in questo frattempo avesse dato un’occhiatina a Balzàc, un ripasso veloce, la nostra semiteutonica banditrice della giustizia e della libertà (sì, con la preposizione articolata: non sia mai che uno voglia limitarne la rappresentanza), magari avrebbe trovato di che seguitare ad indignarsi, cogliendo un’altra zaffata, una coda resistente di quel tanfo. E senza neanche affaticarsi troppo. Proprio lì, a casa sua (a Parigi intendo dire), già il bel mondo del dopo-Napoleone (due secoli fa), si offriva ad ogni olfatto volenteroso quale “cloaca”, dove “i fili nascosti dell’editoria” erano la “cucina della gloria” o della morte di un uomo, dove “il giornalismo, invece di essere un sacerdozio, è divenuto uno strumento per i partiti; da strumento, si è fatto commercio; e, come tutti i commerci, è senza fede né legge”. “Lupanari del pensiero”, “tutto (è) sottoposto alla pubblicità”, dove “al mattino, io sono delle opinioni del mio giornale,…ma di sera la penso come mi pare”. “Il giornalismo è un inferno, un abisso di iniquità, di menzogne, di tradimenti”; “tutto si risolve col denaro. A teatro come nell’editoria, nell’editoria come al giornale”. E’ un “tino in fermento”, concludendo, sinistramente presago: “esso calpesterà tutto”.
Naturalmente non tutto è così, non tutti. Nemmeno allora. Solo che, ieri come oggi, c’è solo un modo per distinguere: la misura degli interessi, materiali, spesso economici, su cui si librano parole ed elzeviri, epigrammi e indignazioni: se ci sono molti soldi, sono tutte chiacchiere. E chiacchieroni quelli che disinvoltamente sorvolano sulla natura e sulla dimensione del basamento su cui si innalzano. C’è bisogno di dire se e quanti soldi giravano intorno al “cattivo kazako” e ai suoi consiglieri? Quanti ne girano intorno a Largo Fochetti, a certe sentenze, a certe condanne, a certe assoluzioni?
Altro che governo Letta-Alfano, finalmente indipendente dal “condannato e dai suoi ricatti”! Altro che Italia, Paese “più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie”!