L’attacco dell’Amministrazione Trump contro Harvard – con il blocco dei visti per studenti stranieri e i tagli ai fondi – è diventato un simbolo della nuova crociata anti-intellettuale dell’establishment trumpiano. La guerra culturale ha preso di mira l’università americana più celebre, trasformandola nel capro espiatorio di tutte le frustrazioni del populismo MAGA. L’operazione è tanto semplice quanto pericolosa: costruire una narrazione in cui il “popolo” – inteso come la parte bianca, rurale e non laureata della società americana – si sente opposto a un’élite corrotta, potente, ipocrita, che trova in Harvard il suo emblema perfetto.
In una recente column sul Corriere della Sera, Federico Rampini analizza questo scontro tra Donald Trump e l’università simbolo dell’establishment, rilevando come “la chiusura agli studenti stranieri suscita allarme e condanna nel mondo intero. Ma si può dire altrettanto del popolo americano? Quasi certamente la risposta è no”. Ed è qui che Rampini, a mio parere, sfiora – senza però caderci del tutto – il rischio di un’eccessiva comprensione per la propaganda trumpiana.
Certo, è vero che Harvard rappresenta per molti americani un’istituzione distante, elitaria, persino arrogante. Rampini lo sottolinea: con un patrimonio di 53 miliardi di dollari, rette annuali da 100mila dollari, edifici intitolati ai miliardari e una composizione studentesca dominata dai figli del ceto medio-alto, è difficile difendere Harvard senza cadere nel cliché dell’intellettuale snob. Ma è proprio questa retorica – l’università come torre d’avorio scollegata dalla realtà – che l’anti-intellettualismo di Trump vuole sfruttare fino in fondo.

Il rischio maggiore è proprio quello identificato già nel 1963 da Richard Hofstadter nel suo classico Anti-intellectualism in American Life. In quel libro, Hofstadter analizzava le radici profonde del sospetto verso l’intellettuale nella cultura americana: un misto di religiosità evangelica, pragmatismo commerciale e individualismo radicale. L’intellettuale veniva percepito come colui che dubita, che problematizza, che mette in discussione le certezze – e per questo come una figura “antipopolare”.
Thomas Nichols, autore di The Death of Expertise (2017), ha aggiornato l’analisi di Hofstadter ai nostri tempi: viviamo in una cultura dove ogni opinione viene equiparata a un fatto, dove l’esperienza e la conoscenza vengono svalutate, e dove il sospetto verso l’élite intellettuale diventa una bandiera ideologica. La campagna contro Harvard è solo l’ultimo capitolo di questo processo.
Come nota Rampini, Trump riesce ancora a toccare corde profonde dell’elettorato, riposizionandosi come “outsider” in lotta contro le istituzioni tradizionali. Ma è proprio questa mistificazione che va smascherata. Perché l’obiettivo del presidente non è una maggiore equità nel sistema universitario, bensì la demolizione di ogni spazio critico e indipendente dal potere politico. E l’università – con tutti i suoi difetti – resta uno degli ultimi bastioni della riflessione libera.
Come fa anche Rampini, è importante ricordare la voce di Steven Pinker, docente di Harvard, ma che pur avendo criticato spesso la deriva ideologica e dogmatica dell’ateneo, ha condannato con fermezza gli attacchi di Trump. La sua posizione è chiara: “il fatto che queste critiche siano possibili dimostra che Harvard non è un gulag ideologico. Ma il fatto stesso che servano battaglie per difendere la libertà di espressione al suo interno mostra che quella libertà è minacciata”.

Questa doppia verità va ribadita: Harvard è criticabile, ma difendere la sua autonomia è essenziale per la democrazia. Scrivere certe definizioni può sembrare una ovvietà, ma nell’era Trump nulla è scontato. Come avrebbe ricordato Umberto Eco, una democrazia si regge su un sapere critico, capace di esercitarsi liberamente contro i poteri. Senza università libere, senza stampa indipendente, senza luoghi dove coltivare idee che non servano al potere del momento, una democrazia non è più tale.
Trump non è l’unico a portare avanti questo tipo di attacco. Jason Stanley, nel suo libro How Fascism Works (2018), spiega come una delle caratteristiche fondamentali dell’autoritarismo sia la delegittimazione del sapere: “Distruggere la fiducia nel mondo accademico è una delle strategie centrali dei regimi autoritari”.

Nel momento in cui si criminalizzano gli studenti stranieri, si tagliano fondi a università “colpevoli” di dissenso, si delegittimano gli esperti in quanto tali, ci si avvicina pericolosamente a una deriva autoritaria mascherata da populismo. E non basta dire che Harvard è imperfetta: è proprio nelle sue imperfezioni che risiede la sua utilità democratica, perché continua – nonostante tutto – a essere uno spazio dove si pensa, si discute, si critica.
Rampini ha il merito di mostrare le contraddizioni di Harvard. Ma non può bastare a giustificare, neppure indirettamente, la campagna di demolizione culturale portata avanti da Trump. Non è una semplice “battaglia tra fazioni”, come conclude Rampini, ma uno scontro tra chi vuole salvare lo spazio del pensiero critico e chi vuole cancellarlo.
Madeleine Albright nel suo ultimo libro Fascism: A Warning 2018, pubblicato proprio dopo la prima elezione di Trump, ci ha avvertito che “the temptation to dismiss demagogues as buffoons is strong. We do so at our peril”.
Nello scontro tra Trump e mondo accademico, scegliere da che parte stare ormai appare sempre più chiaro: tra la libertà e chi intende sopprimerla.