Quando nel dicembre del ’91 le principali reti televisive internazionali inviarono le immagini di Giandomenico Picco condecorato con la massima onorificenza civile da George HW Bush e dalla regina Elisabetta, dopo che tutti i loro concittadini ritenuti ancora in vita erano da poco tornati a casa (l’AP Beirut bureau chief dopo 6 anni in cattività, un miracolo) fu grande il sentimento di orgoglio in seno allo staff Onu e non solo a New York e certamente non solo tra gli italiani.
Picco incarnava la quintessenza del funzionario ONU, ponendo come primo comandamento l’indipendenza da qualsiasi Paese, a cominciare dal proprio. Conosceva la maggioranza dei rappresentanti diplomatici accreditati, sempre affabile e cortese ma nessuna contiguità con alcun delegato, poteva essere male interpretata. D’altronde non ne aveva bisogno, la sua carriera non aveva ombre: era bravo, preparato e… “faceva i compiti a casa”, non c’era dossier che lo trovasse impreparato, non era tipo da improvvisare, quella certo non era una sua dote, ammesso che la si possa considerare tale.
Ma non era neanche un secchione, o un primo della classe; ovvero lo era, ma lungi dal farlo vedere. Mai un gesto arrogante o un tono di voce inadatto. Fu uno shock quando giunse la notizia del suo passaggio al privato, un senso di smarrimento per tanti di noi che lo vedevano come un luminoso punto di riferimento, un faro. Me lo comunicò una sera di giugno ’92 a Phnom Penh – nel frattempo ero transitato nella missione di pace in Cambogia – il collega Unhcr Giuseppe de Vincentiis, che attendevo per cena: “è finito tutto”, esordì, pensai a un ritorno dei khmer rossi, “peggio” replicò, “Picco è andato in Montedison”.
In realtà – seppi dopo – la lettera di dimissioni datata 8 gennaio ’92 (c’è sempre stato un otto nella sua vita) fu messa nel cassetto della sua scrivania al 38o piano del segretariato. I dissapori col nuovo inquilino del Palazzo di Vetro si manifestarono fin dai primi giorni del mandato, ma per spirito di servizio non se la sentì di lasciare i due ostaggi tedeschi ancora nelle mani dei guerriglieri. Tuttavia con le nuove direttive interne introdotte suo malgrado qualcosa si inceppò, una gestione più collegiale delle trattative che gli hezbollah non gradirono. Solo grazie a un deciso intervento sul segretario generale del cancelliere tedessco Kohl, Picco fu autorizzato a usare nuovamente le sue procedure e nel giro di qualche settimana Thomas Kemptner e Heinrich Struebig rividero la luce e di li a poco le dimissioni vennero formalizzate.
Si chiudeva una delle pagine più esaltanti nella storia dell’organizzazione mondiale, una vicenda che è già in tanti libri di storia e che difficilmente verrà dimenticata. Certo, in epoca di corsa al riarmo come l’attuale sembra difficile pensare di aver bisogno di un Man without a gun, come si è definito lo stesso Picco titolando la sua autobiografia. Chissà, può anche darsi invece che dovremo scovare qualche nuovo Gianni Picco per iniziare ad aggiustare l’attuale mondo in subbuglio.