Nell’indice 2022 sulla libertà della stampa, Wpfi, elaborato da Reporters senza frontiere, l’Italia risulta 58ma su 180 paesi esaminati. Rispetto alla posizione 41 occupata nel biennio 2021 e 2020, si tratta di uno smottamento di ben 17 posizioni, il che la colloca peggio di paesi come Giamaica (12), Costa d’Avorio (37), Taiwan (28), Gambia (50), Romania (56).
Il movimento, nel corso dell’anno, degli indicatori di valutazione spiega la retrocessione italiana complessiva e fa capire dove siano i nostri problemi. Gli indicatori recintano quali siano i limiti verificati nel corso dell’anno dal sistema giornalistico di ogni paese.
Rispetto al 2021, l’indicatore politico italiano nel Wpfi ha perso 9 punti, da 65,89 a 57. Quello legislativo ben 15, da 73,93 a 59. Quello sociale, complice la pandemia, ha avuto un vero crollo: 31 punti, da 80 a 49. In calo anche l’indicatore di sicurezza, benché in termini meno preoccupanti: da 73,48 a 68. Unico indicatore in rialzo quello economico. Potrà sorprendere, ma tant’è: da 47,52 a 67.
Il rapporto rileva che, nel periodo in esame, si è accentuata la minaccia del crimine organizzato, in particolare nel mezzogiorno. Al tempo stesso sono salite le manifestazioni di estremismo violento e parolaio, accentuate dalla pandemia e dalla conseguente cattura che il maggiore uso di social media ha operato su menti predisposte alla violenza, oltre che alla dabbenaggine.

Il sistema di produzione delle leggi, che doveva intervenire su taluni regimi giuridici per la stampa, si è come paralizzato, rinunciando all’adozione di diverse leggi proposte per preservare e migliorare la libertà degli operatori. In particolare non sono stati precisati i meccanismi che possono portare alle denunce per diffamazione, una questione tuttora ad alto rischio per chi scrive sui mezzi di informazione.
La decriminalizzazione della diffamazione è restata nel limbo delle buone intenzioni. Inoltre la pandemia ha ulteriormente accresciuto le difficoltà che i giornalisti incontrano tradizionalmente in Italia per disporre tutti, a parità intera, dell’accesso ai dati pubblici.
Il che spiega quanto ha scritto il rapporto a commento della situazione: “i giornalisti a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”. Altro che autocensura!
Visto che il rapporto è confezionato in base ai giudizi anonimi espressi da giornalisti nei distinti paesi, si è in realtà davanti alla descrizione di un autentico agguato al quale le forze economiche e politiche in Italia sottopongono quello che negli Usa è tuttora considerato il “quarto potere”.
World Press Freedom Index 2022
Rank | Paese | Punteggio | Rank | Nome | Punteggio |
01 | Norvegia | 92,65 | 16 | Germania | 82,04 |
02 | Danimarca | 90.27 | 17 | Timor-Leste | |
03 | Svezia | 18 | Namibia | ||
04 | Estonia | 19 | Canada | ||
05 | Finlandia | 88,42 | 24 | Regno Unito | 78,71 |
06 | Irlanda | 26 | Francia | ||
07 | Portogallo | 87,07 | 29 | Argentina | |
08 | Costarica | 33 | Bhutan | ||
09 | Lituania | 35 | Sud Africa | 75,56 | |
10 | Liechtenstein | 84,03 | 42 | Usa | 72,74 |
14 | Svizzera | 82,72 | 58 | Italia | 68,16 |
Fonte: Reporters Without Borders
A parte i ragionamenti sull’Italia, la tabella, consente una serie di considerazioni. Partono tutte dai punteggi.
Il 73% dei paesi in elenco si caratterizza per situazioni gravi o almeno problematiche in quanto a giornalismo e giornalisti; solo otto (erano dodici nel 2021) quelli collocati in una posizione che il rapporto definisce “buona”.
Le prime quindici posizioni trasmettono due messaggi: che la libertà di stampa è maggiore nei piccoli paesi (per trovare un paese medio, nella classifica occorre andare al sedicesimo posto dove si colloca la Repubblica federale tedesca), ed è particolarmente viva nelle democrazie scandinave e baltiche e più in generale nord-europee. A baltici e scandinavi appartengono le prime cinque piazze e sette delle prime dieci piazze sono nordiche.
Altra riflessione viene suggerita dal ritmo con il quale si succedono le posizioni. La distanza tra primo e ultimo classificato è abissale: la Corea del Nord, ingloriosamente ultima, rimedia un misero 13,92. Ma le distanze divengono marcate già nelle prime posizioni: la Finlandia, in quinta posizione, ha più di quattro punti di distacco dalla prima, e tra quinto e decimo posto (Liechtenstein) la cosa si ripete.

Tra decima e ventesima posizione il fenomeno rallenta: le dieci piazze si distanziano per un valore 3,5. Con tutto ciò, quando si arriva alla 35ma posizione, la distanza maturata nel punteggio supera i 17 punti, il che fa dire che le diversità tra paesi, in materia di libertà di stampa, sono rilevanti, e non solo tra punte avanzate e retroguardie, ma anche nel plotone di testa.
Però è nella parte bassa della classifica che le diversità sono più forti. Dividendo in due blocchi le 180 piazze, si vede come la differenza tra le prime 90 posizioni assommino a 24,89 punti (in novantesima posizione la Macedonia del Nord è a 68,39). Per il secondo blocco la distanza diventa di ben 54,42 punti. Alla voragine contribuiscono anche le sostanziose differenze che si registrano in coda. Tra le ultime tre classificate, ad esempio: Iran (23,22), Eritrea (19,62), Nord Corea (13,92).
Tornando all’Italia, il verdetto di Wfpi non può onestamente sorprendere. La nostra cultura insieme corporativa e repressiva è di antichissima data e si trasmette di generazione in generazione, senza che abbia occasione di imporsi una sua seria modifica. L’autoritarismo della società italiana, nel decennio trascorso era costato al nostro paese collocazione nel Wpfi anche peggiore dell’odierna: nel 2016 eravamo 77mi su 180 scrutinati. I miglioramenti successivi avevano fatto sperare, ma alla prima crisi si è tornati indietro. Probabile che il disorientamento dell’opinione pubblica nazionale di fronte ai colpi dell’aggressione russa in Ucraina, porti nel rapporto del prossimo anno, a far scivolare ancora il nostro indice di libertà di stampa.
Per una conferma sulle radici profonde di quello che è un vero vizio nazionale, viene da ricordare che la Corte Costituzionale, nonostante le immaginabili urgenze del dopoguerra, nello storico esordio del 23 aprile 1956 si trovò ad affrontare come primo caso, la costituzionalità di procedimenti penali in corso contro soggetti accusati di “avere o distribuito avvisi o stampati nella pubblica strada, o affisso manifesti o giornali, ovvero usato alto parlanti per comunicazioni al pubblico, senza autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza, com’è prescritto nel detto articolo, o anche, nonostante il divieto espresso di tale autorità”. Il “detto articolo” era il famigerato 113 del testo unico delle leggi sulla pubblica sicurezza (Tulps), che confidava all’autorità di pubblica sicurezza la decisione, caso per caso, di consentire o non la manifestazione in pubblico del pensiero.

Si ammetterà che ben altro e più degno esordio avrebbe meritato il giudice delle leggi in un paese appena uscito dalla censura della dittatura, ma il ceto politico del tempo (il primo centro sinistra era di là da venire) supportato da una opinione pubblica largamente codina, non aveva trovato ancora il tempo per riscrivere una norma inventata per colpire soprattutto la stampa. Erano passati monarchia e fascismo, il popolo aveva scelto la repubblica democratica fondata sul lavoro (che però era evidentemente fondata anche sul potere poliziesco di impedire la manifestazione del libero pensiero), ma toccò alla corte presieduta da Enrico De Nicola rivedere il Tulps.
Carta costituzionale alla mano, la Consulta si espresse in termini cauti ma tutto sommato decisi, a favore della cancellazione di quel residuo non tanto del codice Rocco, quanto di una inveterata mentalità dello stato: rilevò i profili di indeterminatezza dell’art. 113 nel dare all’autorità “una eccessiva estensione di poteri discrezionali”, il che poneva la norma in contrasto con le garanzie fissate dall’art. 21 della costituzione in materia di libertà di espressione. Basta scorrere l’elenco degli avvocati uditi dalla corte nell’udienza pubblica del 23 aprile (Costantino Mortati, Francesco Mazzei, Massimo Severo Giannini, Vezio Crisafulli, Giuliano Vassalli, Achille Battaglia, Federico Comandini, Piero Calamandrei), per intuire di quale qualità abbiano goduto le perorazioni a favore della libertà di espressione e di stampa.
Il che non evita che giusto 66 anni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di quella sentenza, siamo ancora qui a ragionare sui limiti posti dalle leggi e dallo stato alla libertà del giornalismo italiano.