Il talmud recita un adagio che quasi tutti conoscono a memoria: “Dio conta le lacrime delle donne”.
Non essendo particolarmente religiosa – mi chiedo se ciò prima o poi avverrà per davvero e quante lacrime femminili potrà continuare a contare Dio – fino alla fine biblica dei tempi.
Lontana da pensieri metafisici e religiosi – proiettata per indole – nella concretezza della cose terrene spesso mi sono domandata come si possa contribuire – in modo concreto – ad invertire questa rotta.
E’ appurato che vi sia una tendenza maligna e deleteria tracciata a danno delle donne, tutte. Indistintamente e trasversalmente la violenza sulle donne imperversa a prescindere dalla loro età, etnia o ceto sociale; e questo lo sappiamo.
Sono lontana anche da posizioni femministe – io non amo gli estremi; preferisco le posizioni intermedie, quindi sono abituata a rimuginare spesso sulle cose finché non trovo un punto di contatto.
Ogni qualvolta leggo una notizia che riguardi la violenza alle donne – mi trovo a riflettere – da giornalista sulle parole e sul linguaggio utilizzato per narrare quel fatto.
I casi di cronaca purtroppo sono numerosi – quasi quotidiani – pigramente inseriti sotto forma di dati e statistiche che poi ogni anno ci vengono riferite.
Donne come numeri, cifre asettiche senza anima?
Dietro a quelle cifre – così ordinatamente incasellate – ci sono loro: le donne ammazzate, le loro storie e spesso i figli che rimangono orfani. Sì perché – nella maggioranza dei casi – vittima e carnefice sono uniti da un legame affettivo o sentimentale ma anche di amicizia o di lavoro.
La quotidianità dietro cui si nasconde la violenza è quella dei giorni comuni. Paradossale che siano proprio gli uomini più “vicini” – quelli più conosciuti – a rappresentare la prima causa di morte delle donne.
Orbene quando leggo notizie di questo genere – la prima cosa che mi colpisce è il titolo dato. Stiamo diventando (ahinoi) il popolo delle notizie sensazionalistiche, d’effetto immediato ma di deleterio e colpevole contenuto; ne riporterò alcuni che mi ricordo particolarmente:
“Uccisa per troppo amore” ; “Il gigante buono uccide”; “O mia o di nessuno”; “Raptus di passione”.
L’intento è alquanto chiaro: attirare l’attenzione del lettore ed accalappiarlo in prima istanza, seppur ponendo – più o meno volutamente – in primo piano l’assassino.
Come se la vittima fosse già diventata un numero di serie da incastonare in una puntuale statistica, appunto.
Il tentativo di romanzare poi il racconto – per continuare a renderlo appetibile – inesorabilmente sfocia in fantasiosi raffigurazioni del carnefice “graziato” da caratteristiche che – alla fine – lo giustificherebbero quasi per l’azione compiuta.
Ciò che trovo pericoloso è proprio questo, alla fine: la sequela di informazioni biografiche e psicologiche de l’assassino descritto – di volta in volta – con connotazioni attenuanti.
Quante volte abbiamo letto delle aberrazioni in merito?
Non esiste uccidere per “troppo amore”, per “troppa gelosia”, “perché sentimentalmente delusi” o “affettivamente bisognosi della presenza della compagna”; parimenti non dovrebbe essere lecito descrivere l’assassino come “un gigante buono”, “il fidanzatino deluso” o “il marito che aveva perso il lavoro, quindi triste e sconsolato” e per ciò – per riflesso – stressato al punto da uccidere la propria compagna.
Le parole sono importanti (cit) e tutti noi – professionisti del settore o addetti ai lavori – dovremmo imparare ad usarle meglio; soprattutto quando si narra un fatto cruento di cronaca – come un femminicidio.
In caso contrario – buttando a casaccio le parole, le espressioni e le abilissime descrizioni dell’unica persona che incuriosisce il lettore (il carnefice) si rischia solo di dimenticare – nel minor tempo possibile – l’ennesima vittima per passare poi e velocemente, alla successiva.
Le vittime frequentemente non ce le ricordiamo più e questo è davvero il tasto dolente di chi si trova a leggere, scrivere o commentare un femminicidio.
Oggi il trend dell’informazione – al riguardo – è quello di confezionare (e mandare in stampa) uno psicodramma scritto nel minor tempo possibile, sbattere la notizia in prima pagina, ingaggiare il criminologo di turno, seguire per i giorni a venire gli “strascichi” della vicenda e poi dimenticarsene.
Il fast food delle notizie di cronaca nera a cui raramente si accompagna una riflessione mirata.
L’informazione sui femminicidi sta sempre più assomigliando ad una catena di montaggio da cui far uscire la frettolosa notizia.
Siamo passati dall’abrogazione del delitto d’onore – nel 1981 – in cui si è finalmente scritta la parola “fine” su delitti che giustificavano l’orrenda e crudele fine di tante donne ad una evoluzione normativa che – in realtà – non si è totalmente emancipata da retaggi ancestrali e culturali che restano sempre a vantaggio degli uomini.
La società non si è ancora evoluta, perché non abbiamo ancora imparato a trovare una strada giusta per impedire – a monte – questi crimini. L’informazione in tal senso – ne fornisce ogni giorno la prova.
Che messaggio utile ed educativo si può dare alle nuove generazioni di uomini se si continua a parlare della vittima come sottintesa responsabile del suo stesso destino?
Leggiamo fra le righe: esistono parole e frasi tossiche nella narrazione dei fatti che contribuiscono – seppur in modo non palese – a tutto ciò.
(Ri) Pensiamoci.
Si va dalla descrizione della vittima come “indipendente” – “libera sessualmente/disinibita” – “vestita in modo provocante” – “ubriaca” o “in cerca di divertimento” – nei casi di violenza sessuale – fino ad arrivare a descrivere la vittima di femminicidio come l’agnello sacrificale di un meccanismo inceppato di cui è comunque – ed alla fine – quasi sempre responsabile.
Ricordo fra tanti un pezzo di cronaca nera che mi colpì allo stomaco.
Una volta finito di leggere; dai toni, dal linguaggio descrittivo utilizzato e dalla narrazione dei fatti sembrava quasi che il “fidanzatino innamorato ma deluso dal fatto di essere stato lasciato” – riporto testualmente la definizione – avesse ucciso la ex ragazza – avendo una motivazione attendibile.
Il giornalista lo descrisse come un bravissimo ragazzo che aveva agito in preda ad un amore incontrollabile e quindi – parimenti vittima- della sua stessa gelosia e di una impulsività caratteriale indomabile.
Diciamo che la carta stampata ha spesso il pregio di finire cestinata – quindi magari pochi si saranno ricordati di questo articolo – ma cosa si può dire di una intervista recente andata in onda su di una rete nazionale?
Il 17 settembre su Rai Uno – difatti – a “Porta a Porta” una intervista di Bruno Vespa (a cui di certo non mancano né esperienza né dialettica) mi ha oltremodo convinto che sia necessario monitorare e correggere il linguaggio verbale e scritto con cui affrontiamo questo argomento così delicato.
Una vittima mancata – come la Signora Lucia Panigalli – scampata per puro caso alla morte per mano del suo ex compagno non doveva essere intervistata con tanta leggerezza e superficialità; sminuendo la portata della sua vicenda ed – addirittura – ridicolizzandone i dettagli.
Che nell’errore madornale sia caduto anche un giornalista di lungo corso come Vespa – non può giustificare naturalmente neppure il cronista meno esperto; il codice deontologico parla chiaramente in tal senso, però è anche vero che l’attenzione che si pone alle parole usate è davvero scarsa ed il controllo de quo, latitante.
Cambiare rotta – in tema di violenza sulle donne – forse è possibile.
Magari lo sarà ancora di più se il paradigma della violenza lo riusciremo finalmente a scomporre e risolvere in tutte le forme in cui si presenta, incluso il linguaggio.