“Dobbiamo mettere i nostri corpi a difesa della Costituzione e della libertà di pensiero. Non indietreggio di un passo nella critica al suo operato“. Così Roberto Saviano, avuta notizia della iscrizione di un procedimento penale a suo carico, per un’ipotesi di diffamazione nei confronti del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Notizia prevista, peraltro, una volta proposta la querela, a sua volta, ampiamente pubblicizzata.
Com’è noto, l’attribuzione controversa è “Ministro della Malavita”; nel seguito di questi giorni, Saviano, ha poi riproposto la locuzione “Mala Vita”, con separazione di aggettivo e sostantivo, che Gaetano Salvemini aveva riferito a Giovanni Giolitti: si può supporre, intendendo suggerire un parallelo fra lui, Saviano, e l’illustre storico e politico. Suggerimento problematico, per varie ragioni; di cui una se ne può qui ricordare, la maggiore: dove si faccia questione di “libertà di pensiero”. Ed è che Giolitti non intraprese alcuna azione giudiziaria.
La circostanza agisce nelle due direzioni. Vale a distinguere Giolitti da Salvini o, più in generale, la condotta di un governante liberale da quella di chi tale non è: giacché, un Ministro non querela, cioè, non agisce a titolo personale; ma lascia che la sua stessa condotta politica lo difenda e lo innalzi sulle critiche, se può; altrimenti, volendo smentire di essere illiberale, proprio nella confusione dei due piani, il personale e il pubblico, finisce eminentemente con il confermare il suo autoritarismo.
Ma usare “il randello (o manganello) della Legge”, vale, e per lo stesso criterio, pure a distinguere Saviano da Salvemini; o, in generale, da un lato, la condizione di chi, rispetto alla “libertà di pensiero”, mostra di avere avuto una posizione ondivaga, se non equivoca; e dall’altro, quella di chi, sempre la difese, senza mai derogarvi.
Questo, dell’entrare e dell’uscire dal piano pubblico a quello privato, è un malvezzo specialmente diffuso anche fra i magistrati: che occupano spazi pubblici con ogni ampiezza, e poi “usano” la dimensione privata, per intimidire i loro critici. Che sia formalmente possibile, nulla toglie alla distorsione di fatto: come per il Ministro Salvini. Ma torniamo a Saviano, e alla sua “legittimazione” rispetto alla “libertà di pensiero”.
Dobbiamo fare un passo indietro.
Circa sei anni fa, Roberto Saviano chiese quattro milioni e settecentomila euro, a titolo di risarcimento del danno, al Corriere del Mezzogiorno e alla Professoressa Marta Herling, nipote di Benedetto Croce. Erano le settimane del terremoto de L’Aquila. Nel corso dello spettacolo televisivo Vieni via con me, Saviano aveva raccontato che nel 1883 il filosofo, allora diciassettenne, travolto dal terremoto nella sua Casamicciola, vistosi perduto (e ne sarà falcidiata la sua famiglia), avrebbe offerto centomila lire a chi lo avesse salvato.
Il racconto, non era fondato, ma (come ricordava la Herling, storica di professione) al più riconducibile a voci raccolte da un turista tedesco del tempo; di cui si legge in un apocrifo attribuito a Croce, ma mai nemmeno lambite dall’unico documento letterario certo del filosofo, Memorie della mia vita, che si sia soffermato sull’episodio di lui giacente sotto le macerie.
A questo primo rilievo, si poteva aggiungere la considerazione che il giovane Croce, pronto a salvarsi pagando una somma di denaro (ma, se anche fosse stato, quale, il punto?), veniva ricordato, come accennavo, durante il commento alle vicende della c.d. cricca: che si sarebbe arricchita di corruttele a spese dei terremotati aquilani. Ovvio che la nipote-storica, nella sua lettera di replica, volesse far constare il suo disappunto: mazzette per tutti, in ogni tempo sismico, sembrava suggerire l’infelice accostamento. Così, nella lettera, si leggeva che Saviano avrebbe “orecchiato” la ricostruzione contestata.
Quattro milioni e settecentomila euro, oltre che una pretesa tanto smodata da risultare ridicola (orecchiare è orecchiare, nient’altro) scoprivano, e scoprono, il fianco savianeo in termini inemendabili: o lo svelano avido, o lo svelano minaccioso.
Ma non basta. Perché vi è una sequela “storico-logico-morale”, che non può essere sottaciuta: specie dove si invochi la tutela della “libertà di parola”.
La Professoressa Herling, è di nobile casato liberale perché suo padre, Gustaw, sposò Lidia Croce, la più giovane delle figlie di Don Benedetto. La cui sorella maggiore, e zia della storica, è stata Elena. Perché, questo indugio genealogico? E rispetto alla “legittimazione storico-logico-morale” di Roberto Saviano, in materia di “libertà di parola”?
Gustaw Herling, ebreo nato in Polonia, dovette prima fuggire dai Panzer di Hitler, finendo, però, catturato dalla Polizia politica di Stalin, in un gulag sovietico, per due anni; ha donato all’umanità Un mondo a parte: pagine di vita e di memoria, uscito in prima edizione con Prefazione di Bertrand Russell, che, probabilmente, costituisce l’opera più riuscita nella simultanea descrizione dell’unitario abominio totalitario: nelle sue due apparenti biforcazioni, nazionalsocialista e comunista.
Ma non si può tralasciare di rammentare, almeno, anche i racconti de Il Pellegrino della Libertà, fra cui spicca il quadro del suo primo incontro con Il Senatore (così Croce era ovunque chiamato): “simbolo della resistenza spirituale contro il fascismo”, scriverà il giovane scrittore, da soldato nel Corpo Polacco del Generale Anders, combattente anche a Montecassino.
E’ singolare (a non dire che ne pare precisata la natura casuale del suo rapporto con l’idea della libertà di parola), che Saviano nel 2004, ancora piuttosto ignoto venticinquenne, aveva scritto: “La prosa dei racconti di Herling è elegante, rispettosa, piana…” (su Pulp, n. 48, Giugno 2004).
Quanto ad Elena Croce, storica anch’essa come il Padre e la nipote, può qui essere ricordata per un saggio di speciali implicazioni, La Patria napoletana: dove si presenta la vita di Gaetano Filangeri. Fra i maggiori giuristi dell’Illuminismo europeo (Benjamin Constant ne curò un commento, confermandone e rilanciandone la risonanza mondiale), e autore di “Scienza della Legislazione”; il cui terzo volume, dedicato al diritto penale, fissò, in termini tecnicamente più precisi rispetto allo stesso Cesare Beccaria (che pure mantenne l’insuperabile merito di aver scritto “con il sentimento”), i caratteri di una pena rieducativa e non retributiva: specialmente rilevando la necessità di una “volontà cosciente”, a tutela degli infermi di mente e dei fanciulli (e molto altro).
Questo, per dire brevemente che, a fronte di un “ha orecchiato” (rilievo, peraltro, correttissimo), Saviano, posto in diretta relazione con questi elevatissimi meriti civili, politici e culturali, tutti partenopei, come afferma siano i suoi, volle invece battare pretestuosamente (e minacciosamente, data la cifra) cassa: anziché dirsi disposto lui a pagare, per essere ammesso ad interloquire con simile “sequela”: e magari imparare qualcosa: proprio sulla “libertà di parola”.
Quando la libertà, non solo di parola, si assottiglia, come in Italia, senza pause da Mani Pulite in poi (scusate la sintesi), e oggi raccogliendosi i frutti più deteriori di tale assottigliamento ormai al Governo del Paese, il maggior pericolo è di perdere la memoria di sè. E, con essa, la stessa possibilità di scorgere quale via intraprendere, per avviare la riscossa, e con chi.
Ce lo spiega proprio Salvemini, con la metafora del “colpo di revolver”: “In casi come questi, prima o poi, un colpo di revolver, viene sparato sempre…Ma la vera responsabilità è di coloro che hanno creato, o hanno permesso che altri creassero, una situazione tale per cui si arriva al colpo di revolver”.
Hanno creato, o hanno permesso che altri creassero (G. Salvemini, Lezioni di Harvard). E, con loro, non si può.