Scrivere di sessismo mediatico è un’arma a doppio taglio; analisi miopi hanno contribuito in questi anni a creare una spessa patina di retorica, il che ha avuto l’effetto di ridurre il dibattito a una questione di politically correctness e a generare un fastidio diffuso e trasversale verso chi si avvicini a temi simili. “Il gender non può essere l’unico filtro interpretativo”, “ci son questioni più serie all’interno del dibattito sulle discriminazioni di genere”, si obietta. Il primo assunto trova chi scrive pienamente d’accordo, come pure il fatto che si debbano trattare in modo approfondito altre facce della questione di genere: su tutte le discriminazioni sul posto di lavoro. Credo però che il compito di chi scrive sia partire in primis da ciò che si conosce per esperienza diretta, mettendo per quanto possibile in luce i meccanismi dell’ingranaggio editoriale cui si è, volenti o nolenti, parte. Questo ne è un primo tentativo.
Giugno 2016. Il PD ha appena vinto con largo stacco i ballottaggi di Roma e Torino. La mattina dopo, aprite i giornali: vi aspettate resoconti delle elezioni, analisi politiche, biografie riassuntive dei candidati, disamine dei loro programmi amministrativi. Invece, in prima pagina trovate titoli di questo tenore: “Vince Giachetti, padre di due figli amante di Terzani”, o “Trionfo di Fassino, figlio unico patito del parmigiano”. Questo sui quotidiani moderati; gli altri, più estremisti, ospitano invece presunti ritratti satirici che si dilungano compiaciuti sul colore di cravatta e mocassini, magrezza, pancetta o eventuale alopecia dei neoeletti.
E’ quello che è successo sulle pagine dei maggiori quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Solo che i bersagli erano donne. Concentriamoci sulla galleria di ritratti di Virginia Raggi, già pugnalata alle spalle — lo ha spiegato bene Maria Nadotti — dalla missiva del quasi-ex-marito Andrea Severini, altro esempio di fantascienza divenuta inspiegabilmente realtà. (“Ti proteggerò da lontano”, leggiamo, magari pronunciato con sguardo alla Norman Bates; ve lo immaginate un gesto pubblico simile di una first lady al neosindaco di Roma?). Sulle colonne di Repubblica Viola Giannoli non manca di descrivere Raggi facendo immediatamente riferimento al suo ruolo di madre e moglie dell’immancabile Severini, “attivista pentastellato” prosegue “che tempo fa la convinse a seguirlo nei meet-up grillini. Prima della nascita del figlio, però, la politica l’aveva appena sfiorata”. La correlazione tra gli eventi ci sfugge, ma siamo già proiettati verso l’imperdibile fulmen in clausula: “alla mancata gavetta in sezione ha tentato di sostituire il volto da ragazza della porta accanto: mini orecchini, braccialetti colorati, trucco appena accennato, tute sportive, vestiti neri, canottiere bianche, giacche blu”.
Ma questo è niente in confronto al Ritratto di Virginia la Valanga firmato da Mario Lavia per l’Unità. Alla prosa piatta del pezzo di Repubblica si sostituisce un pastone di gerghi, citazioni approssimative in più lingue il cui unico merito è veicolare con assoluta precisione la spazzatura misogina malamente mascherata da ritratto di costume. Il bagaglio di riferimenti utilizzati per ‘fare il ritratto’ alla neosindaca spicca per originalità fin dal primo paragrafo: Raggi viene presentata come una “dark lady che immaginiamo sempre in nero”, o meglio una “Bette Davis senza magnetismo”; da moglie e madre a donna fatale il passo è breve, insomma. Quali sarebbero le corrispettive metafore cinematografiche per i colleghi uomini? Non osiamo immaginare, e raggelati proseguiamo: senza però trovare molto altro, nulla in ogni caso che abbia a che fare con il peso specifico della proposta politica della neoeletta (su cui invece ci sarebbe da discutere parecchio, come pure sul modus operandi e la sostanza del movimento Cinque Stelle). No: gli unici momenti in cui Lavia si infervora sono le descrizioni dell’aspetto fisico della sindaca, che, “lontanissima dalla Romana di Moravia” si trasforma in donna “diafano simil-fantasma del Louvre […] dalla postura così poco romana, magra magra, capelli neri”, per concludere col particolare della “comparsa dell’orecchio a sventola” — un tocco narrativo da far invidia a Maupassant, non c’è che dire.
Mi chiedo perché questi articoli abbiano attirato la mia attenzione di lettrice più di tanti altri. Forse perché fa una certa impressione vedere attacchi del genere sulla pagina del quotidiano fondato da Gramsci, non su Libero; segno che il maschilismo è trasversale, acquattato e strisciante, e spesso proviene da uomini come da donne. “Sui non-autori meglio tacere” amava ripetere il grande critico della cultura Cesare Cases, “a meno che non siano un caso sociale; allora sì devono essere stroncati”. Lo stesso dovrebbe valere per i non-giornalisti, ma qui ci troviamo per davvero davanti a un caso sociale. C’è da auspicarsi che una denuncia da parte di più voci renda questa una situazione da manuale, e spinga l’Ordine a prendere provvedimenti concreti contro chi pubblica articoli sessisti o immagini — la copertina del Tempo è un altro esempio lampante: sotto il titolo, Roma in bambola, il viso della neosindaca viene ritagliato e posto sopra un corpo di Barbie seduta a gambe aperte che straccia il logo del PD — che nulla hanno a vedere con la satira.
Eloisa Morra è PhD candidate in Letteratura italiana a Harvard. Ha pubblicato Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja (Quodlibet, 2014), vincitore di una menzione speciale all’Edinburgh Gadda Prize 2015.