Lo spettro dell’inflazione torna ad affacciarsi sull’economia USA. A giugno i prezzi al consumo negli Stati Uniti sono saliti dello 0,3% rispetto al mese precedente, portando il tasso d’inflazione annuo al 2,7%. Il dato, in linea con le attese degli analisti, è al massimo dallo scorso febbraio (2,8%) e sembra essere una delle prime conseguenze macroeconomiche visibile dei dazi imposti da Trump nelle scorse settimane.
L’indice “core”, che esclude le componenti più volatili come alimentari ed energia, ha segnato un incremento mensile dello 0,2%, con un’inflazione annua al 2,9%. Anche in questo caso i numeri rispettano le attese del consensus, anche se la statistica mensile è lievemente inferiore rispetto allo 0,3% previsto dagli investitori.
In flessione il comparto automobilistico, con i prezzi dei nuovi veicoli in flessione dello 0,3% e quelli dell’usato in calo dello 0,7%. Reggono meglio altri settori esposti all’import, come l’abbigliamento (+0,4%) e l’arredamento domestico (+1%).
Secondo il Bureau of Labor Statistics (BLS), la componente immobiliare resta la principale responsabile dell’incremento generale del CPI, con una variazione annua del +3,8% e dello 0,2% su base mensile. Aumentano anche i prezzi alimentari, dello 0,3% rispetto a maggio. Più caro anche il prezzo dell’energia (+0,9%), quello delle prestazioni medico-sanitarie (+0,6%), e quello dei servizi di trasporto (+0,2%).
Arretra parallelamente il potere d’acquisto delle famiglie statunitensi, misurato attraverso i salari reali: secondo il BLS, le retribuzioni orarie corrette per l’inflazione sono diminuite dello 0,1% a giugno, pur rimanendo in crescita dell’1% su base annua.
Tiepida la reazione dei mercati, nonostante le buone notizie arrivate dalle trimestrali delle grandi banche USA. Dopo aver aperto in territorio positivo, martedì l’indice S&P 500 ha chiuso perdendo lo 0,4% mentre il Nasdaq è rimasto in territorio positivo (+0,18%), spinto dalle indiscrezioni su una possibile ripresa delle esportazioni di chip Nvidia (+4%) verso la Cina. In leggero aumento anche i rendimenti dei titoli del Tesoro USA decennali (+0,06%).
L’attenzione degli operatori passa ora in gran parte sulla Fed e sulle decisioni che seguiranno nei prossimi mesi. Donald Trump è tornato a fare pressione sulla banca centrale affinché proceda con un taglio dei tassi d’interesse, che sono fermi da dicembre al 5,25–5,50%. L’inquilino della Casa Bianca accusa l’istituto guidato da Jerome Powell di aggravare il peso del debito federale proprio a causa del mancato allentamento monetario, sostenendo che sia l’immobilismo della Fed – e non la sua politica commerciale – la vera causa dell’inflazione.
La linea dell’attuale governatore della Fed, e quella della maggioranza del board, resta però improntata alla prudenza. Powell ha più volte sottolineato come l’economia americana sia ancora sufficientemente forte da consentire di temporeggiare in attesa di appurare il vero impatto delle tariffe volute dalla Casa Bianca. Gli investitori si aspettano che l’atteggiamento attendista domini anche la riunione di luglio, ma che un primo taglio dello 0,25% possa esserci a settembre.
Il mandato di Powell come presidente è tuttavia in scadenza tra meno di un anno, nel maggio 2026, e così la Casa Bianca si è già messa in moto per identificare il successore.
“Esiste un processo formale già in corso per identificare il prossimo presidente della Federal Reserve”, ha confermato martedì il Segretario al Tesoro Scott Bessent in un’intervista a Bloomberg. “Ci sono molti candidati validi, vedremo quanto rapidamente si muoverà il processo”.
Bessent ha inoltre stroncato un’eventuale permanenza di Powell nei ranghi della Fed anche dopo la fine del suo mandato da presidente (il suo incarico come componente del board dei governatori ha infatti scadenza nel 2028), una scelta che a suo dire genererebbe “confusione” sui mercati.
Il capo-economista di Trump ha aggiunto che Trump sta valutando attentamente i profili degli eventuali successori. Tra i nomi circolati nelle ultime settimane, figurano l’ex governatore Fed Kevin Warsh, l’attuale direttore del National Economic Council Kevin Hassett, lo stesso Bessent, e il componente del board Fed Christopher Waller (già nominato da Trump nel suo primo mandato e più volte espressosi a favore di un taglio dei tassi).
La crociata dell’amministrazione contro Powell coinvolge anche aspetti extra-monetari. Alcuni parlamentari repubblicani hanno infatti sollevato dubbi sugli sforamenti di spesa nei lavori di ristrutturazione di due sedi storiche della Fed, insinuando che ci siano presupposti legali per una rimozione anticipata.
“La questione è al vaglio del presidente. Se c’è un motivo per licenziarlo, lo farà”, ha dichiarato domenica Hassett in un’intervista ad ABC News.
Più cauto Bessent, che martedì ha preferito glissare sull’argomento e ha ribadito che Trump ha più volte affermato di non voler (e poter) licenziare Powell.