L’Europa è divisa. La scadenza del 9 luglio, quando i dazi su tutti i prodotti europei esportati verso gli Stati Uniti rischiano di lievitare fino al 50%, è imminente, ma i 27 Paesi membri non sembrano aver ancora trovato un’intesa. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha sollecitato più volte i partner commerciali a rispondere al presidente Donald Trump al più presto per evitare un effetto boomerang e tornare alle tariffe di aprile.
A Bruxelles, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha sollecitato il Comitato dei rappresentanti permanenti, al quale siedono gli ambasciatori dei 27 Stati membri, a trovare una soluzione al più presto. Questa settimana deve affrontare anche un voto di sfiducia legato al Pfizergate: mentre era ministra della Difesa in Germania, è accusata di aver scambiato dei messaggi privati con un dirigente della casa farmaceutica per assegnare contratti per milionari.
In Europa, l’obiettivo è un dazio generico al 10% con alcune eccezioni, come aerei e alcolici. Ma il pomo della discordia è la possibilità di accettare l’asimmetria dei dazi (cioè, tariffe imposte dagli Stati Uniti senza controbilanciamento europeo) o rispondere – e come. Si sono creati due schieramenti: chi preferisce risolvere al più presto, come Germania, Ungheria e Irlanda, che dipendono dal mercato statunitense, e “subire” la proposta americana e chi invece vuole continuare a negoziare, come Spagna, Austria e Francia, sostenendo che l’Europa deve cominciare a difendere la propria indipendenza economica.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, fiduciosa del mercato italiano, si era schierata con il cancelliere tedesco Friedrich Merz a favore di un dazio generico al 10%, anche unilaterale, risolvendo così la situazione velocemente ed evitando un inasprimento dei rapporti.
Questa situazione di stallo non cancella i dazi in vigore al momento: un 25% sulle auto, un 50% sull’alluminio e sull’acciaio e un 10% su tutto il resto, oltre alla minaccia di un 17% sull’agroalimentare. Il pacchetto di contromisure valutato da Bruxelles sui prodotti Made in USA esportati in Europa potrebbe toccare circa 120 milioni di euro, in aggiunta a un provvedimento a parte solo per colpire le aziende tech.
La Casa Bianca intanto marcia spedita. Dopo i dazi al 25% per Giappone, Corea del Sud, Malesia e Kazakistan, al 30% per Sudafrica, al 32% per Indonesia, al 35% per Bangladesh, Serbia e Cambogia, al 36% per Thailandia e al 40% per Myanmar e Laos, si aggiungono anche Tunisia e Bosnia-Erzegovina al 30%. Trump si è dimostrato aperto a negoziare fino al 1 agosto. Dopo quella data “tutti i soldi saranno dovuti e pagabili, senza proroghe concesse”, ha annunciato su Truth Social. È impossibile non notare che a essere colpiti sono soprattutto i Paesi del Sud-Est asiatico, che rappresentano circa il 7,2% del PIL mondiale e che, secondo il presidente, approfittano del deficit commerciale per esportare negli USA più di quanto importino.
Per il momento, dei “90 accordi in 90 giorni” promessi da Trump all’inizio della tregua lo scorso 9 aprile solo due Paesi hanno finalizzato un patto: il Regno Unito (un dazio al 10% su praticamente tutti i beni inglesi) e il Vietnam (con una tariffa del 20% sulle esportazioni).