Cedere in fretta per evitare l’escalation dei dazi? O tenere il punto e rischiare un’escalation commerciale che affosserebbe l’export europeo?
A meno di due settimane dalla scadenza della tregua doganale fissata al 9 luglio, l’Unione Europea è di fronte a un bivio esistenziale nelle trattative con gli Stati Uniti. I capi di Stato e di governo dell’Unione europea si sono riuniti a Bruxelles per decidere se imprimere un’accelerazione ai negoziati o se mantenere una linea più rigida, anche a costo di compromettere un’intesa con Trump.
La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha confermato di aver ricevuto giovedì un nuovo documento negoziale dalla Casa Bianca, definito da un diplomatico europeo come un “principle agreement in due pagine” che non entra nei dettagli tecnici. “Siamo pronti a un accordo”, ha dichiarato von der Leyen, “ma ci stiamo preparando anche alla possibilità che non si raggiunga nulla di soddisfacente. Tutte le opzioni restano sul tavolo”.
A dividere l’Europa è innanzitutto il metodo. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, determinato a evitare una guerra commerciale che penalizzerebbe l’industria automobilistica, ha chiesto con insistenza “un accordo semplice e veloce, non lento e complicato”. Ma la Francia, pur condividendo l’urgenza, insiste sulla necessità di equilibrio. “Non possiamo accettare condizioni che non siano bilanciate”, ha avvertito Emmanuel Macron, aggiungendo che “la disponibilità europea non deve essere interpretata come debolezza”.
I due leader si sono mossi con l’Italia per sollecitare un aggiornamento della Commissione già durante la cena di giovedì. Il timore è che senza un’intesa Trump possa applicare un dazio generalizzato del 50% su tutte le merci europee, replicando la “Liberation Day Tariff” annunciata a inizio aprile. Attualmente, il blocco europeo è già soggetto a tariffe statunitensi del 50% su acciaio e alluminio, del 25% su auto e componenti, e a un dazio del 10% su gran parte degli altri beni (che potrebbe diventare permanente senza accordo).

Dietro la pressione tedesca c’è soprattutto la preoccupazione che Bruxelles possa accettare un’intesa piatta con un’aliquota unica del 10% per tutte le categorie, senza distinzioni tra i settori. “Non è il mandato che abbiamo dato alla Commissione”, ha chiarito un diplomatico europeo, secondo cui Berlino si attende “una soluzione mirata per i comparti più esposti”.
Merz teme che un’intesa simile possa penalizzare proprio i punti di forza del Made in Germany: auto, semiconduttori, farmaceutica, siderurgia. E nelle ultime settimane ha proposto — tramite la ministra dell’Economia Katharina Reiche — un meccanismo che consenta di compensare le esportazioni con la produzione locale di BMW e Mercedes-Benz negli Stati Uniti. Ma resta incerto se la clausola, legata a quote limitate, possa realmente evitare l’imposizione dei dazi più pesanti.
Secondo il direttore generale per la politica economica esterna del ministero tedesco, Christian Forwick, “la nostra maggiore preoccupazione non è tanto il livello del dazio, ma la sua imprevedibilità. Cambiare tariffe ogni poche settimane rende impossibile per le imprese pianificare”. Forwick ha dichiarato che un dazio del 25% sull’auto “equivarrebbe alla fine delle relazioni commerciali” tra le due sponde dell’Atlantico.
Dietro le quinte, molti funzionari temono che l’accordo finale (se mai arriverà) finirà per essere profondamente sbilanciato. “Se l’intesa è troppo asimmetrica, sarà accolta molto male dall’opinione pubblica nei nostri Paesi”, ha avvertito un funzionario UE.
A Bruxelles, però, alcuni osservano che il margine di manovra è ridotto. Washington, secondo i negoziatori, sarebbe disposta a offrire solo concessioni limitate, legate a quote restrittive, molto lontane dalla liberalizzazione tariffaria auspicata inizialmente. “Trump ha introdotto i dazi più alti dai tempi della Grande Depressione per costringere le imprese a rilocalizzare”, ha ricordato un diplomatico. Il deficit commerciale statunitense con l’UE è salito a 232 miliardi di dollari nel 2025, pari al 19% del totale americano.
Nel frattempo, la Commissione discute anche alternative a lungo termine. Tra le opzioni sul tavolo, un progetto di cooperazione commerciale con l’area Asia-Pacifico per affiancare — o sostituire — le funzioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che secondo Merz “ormai non funziona più“.
Sul fronte del riequilibrio, si valuta anche una tassa sulla pubblicità digitale, che colpirebbe colossi americani come Google, Meta, Apple, X e Microsoft, erodendo il surplus nei servizi che gli Stati Uniti vantano sull’Europa. Per ora, l’UE ha approvato ma non ancora imposto dazi su 21 miliardi di euro di beni americani, con una seconda tranche — da 95 miliardi — ancora in discussione.
A complicare ulteriormente il quadro, il rinnovato asse commerciale tra Stati Uniti e Cina. Giovedì, Trump ha confermato di aver siglato un’intesa formale con Pechino, dopo il principio d’accordo raggiunto a Ginevra a maggio. La Cina, secondo fonti ufficiali, si è impegnata a fornire terre rare agli USA, in cambio del ritiro di alcune contromisure. Il segretario al Commercio Howard Lutnick ha parlato di “intese imminenti” anche con altri dieci partner, con il Tesoro prevede di chiudere tutti i dossier entro il 1° settembre, ossia il Labor Day.
Trump ha inoltre fatto sapere che la scadenza del 9 luglio potrebbe essere posticipata per i Paesi che negoziano “in buona fede”. Ma ha anche lasciato intendere che, in assenza di risultati, la Casa Bianca potrebbe imporre unilateralmente le nuove tariffe.