A Lancaster House, lì dove nell’estate del 2012 Mario Draghi pronunciò il suo celebre “whatever it takes”, si è aperto martedì mattina il secondo giorno consecutivo di trattative tra Stati Uniti e Cina per riportare le relazioni commerciali tra le due superpotenze su binari di cooperazione dopo settimane di tensioni incrociate su dazi, tecnologia e terre rare.
A confermare il clima costruttivo è stato il segretario al Commercio americano, Howard Lutnick: “I colloqui stanno andando bene, abbiamo trascorso insieme tutta la giornata di ieri e anche oggi continueremo», ha dichiarato ai giornalisti a margine dell’incontro londinese.
Al centro del confronto, durato quasi sette ore lunedì e ripreso martedì mattina intorno alle 10, ci sono i controlli sulle esportazioni, le forniture di materiali strategici e gli effetti delle recenti misure tariffarie che hanno scosso mercati e catene di approvvigionamento globali.
“Ci aspettiamo un allentamento dei nostri controlli all’export, in cambio della ripresa dei flussi di terre rare da parte cinese”, aveva dichiarato Kevin Hassett, capo del National Economic Council della Casa Bianca, in un’intervista a CNBC.
Per Washington sono presenti il segretario al Tesoro Scott Bessent, il responsabile del Commercio Jamieson Greer e il segretario al Commercio Howard Lutnick, quest’ultimo custode delle restrizioni sulle tecnologie avanzate. Di fronte, la delegazione cinese è guidata dal vicepremier He Lifeng, uomo vicino al presidente Xi Jinping e già protagonista dei colloqui di Ginevra.
Secondo fonti di entrambe le delegazioni, il primo round di trattative ha confermato la volontà politica di trovare un’intesa di principio su una road map condivisa. Ma restano numerose incognite. “A Ginevra hanno lasciato troppe cose nell’ambiguità”, ha commentato Josh Lipsky, direttore per l’economia internazionale dell’Atlantic Council. “Ora vogliono tornare a quei punti, ma mettendo nero su bianco cosa si può esportare, cosa no, e con quali licenze”.
Il nodo centrale resta lo stesso: il controllo cinese sulle terre rare, un gruppo di 17 elementi fondamentali per l’industria elettronica, automobilistica e militare. Pechino ne detiene il 90% della capacità globale di raffinazione e, da aprile, ha imposto un nuovo regime di licenze che ha rallentato le esportazioni verso gli Stati Uniti. Washington, dal canto suo, ha reagito irrigidendo ulteriormente i limiti alla fornitura di semiconduttori e aprendo alla revoca dei visti per studenti cinesi.
Nel fine settimana, un portavoce del Ministero del Commercio cinese ha fatto sapere che “sono state approvate alcune richieste conformi ai criteri”, lasciando intendere un possibile allentamento dei vincoli. “La Cina è disponibile a rafforzare il dialogo con i Paesi coinvolti per facilitare il commercio legittimo”, ha dichiarato il portavoce.
Nel frattempo, l’American Chamber of Commerce in China ha confermato che alcuni fornitori cinesi di aziende americane, tra cui General Motors, Ford e Stellantis, hanno ottenuto licenze di esportazione temporanee di sei mesi. Ma secondo gli analisti, la stretta di Pechino è destinata a persistere. “Anche se la Cina dovesse accelerare il rilascio delle licenze, non si tornerà alle condizioni precedenti ad aprile”, ha avvertito Capital Economics in un report pubblicato venerdì.
Il quadro macroeconomico cinese non aiuta: lunedì, l’Ufficio delle Dogane ha pubblicato dati deludenti sull’export di maggio, cresciuto solo del 4,8% su base annua (contro l’8,1% di aprile), e con un crollo del 34,5% verso gli Stati Uniti. Numeri che mostrano gli effetti tangibili della guerra commerciale.
A peggiorare il quadro, si aggiungono i segnali di deflazione: l’indice USA dei prezzi al consumo (CPI) è sceso dello 0,1%, mentre l’indice dei prezzi alla produzione (PPI) ha registrato un calo annuo del 3,3%, il più marcato degli ultimi 22 mesi. Secondo Dong Lijuan, capo statistico del National Bureau of Statistics, il calo è legato alla flessione dei prezzi globali di energia e materie prime, ma anche alla debolezza ciclica della domanda interna.
L’incontro londinese rappresenta un banco di prova cruciale per verificare se le due potenze sono ancora in grado di gestire il conflitto commerciale attraverso il dialogo, o se il terreno è ormai scivolato verso una competizione sistemica.
“Non sarà un accordo risolutivo”, osserva un diplomatico europeo a margine dei colloqui, “ma se almeno riuscissero a stabilizzare le regole del gioco, sarebbe già un passo avanti”.