Dario Amodei, numero uno di Anthropic, una delle aziende più avanzate nel settore dell’intelligenza artificiale, non usa mezzi termini: “Nei prossimi cinque anni, potremmo assistere all’eliminazione di metà dei posti di lavoro impiegatizi di primo livello. La disoccupazione potrebbe schizzare tra il 10 e il 20 per cento”.
L’avvertimento, affidato ad Axios dal suo ufficio affacciato su downtown San Francisco, ha il peso specifico di provenire da chi queste tecnologie le sta costruendo. E che oggi si dice “stanco degli edulcoranti”, riferendosi alla retorica accomodante che circonda l’AI. “È ora che governi e aziende inizino a dire la verità: stiamo per assistere a una sostituzione massiccia di mansioni nel diritto, nella finanza, nella consulenza e nei servizi digitali.”
Il silenzio dei vertici istituzionali – e in particolare della Casa Bianca – è assordante. Il presidente Trump, nel pieno del secondo mandato, non ha finora affrontato l’impatto occupazionale dell’AI. E se nel suo entourage la questione è considerata marginale, Steve Bannon, ex stratega e ora podcaster di riferimento per l’universo MAGA, anticipa che il tema sarà esplosivo nella campagna per il 2028: “Nessuno sta valutando l’impatto su chi ha meno di trent’anni. I lavori che contano nei vent’anni di un individuo verranno falcidiati.”
Il punto non è se, ma quando. Amodei ha appena presentato Claude 4, il nuovo modello generativo targato Anthropic, capace di scrivere codice con livelli prossimi a quelli umani. “Potremmo curare il cancro, far crescere l’economia del 10% annuo, raggiungere il pareggio di bilancio. Ma intanto, il 20% della popolazione potrebbe restare senza impiego.”
Le big tech – da OpenAI a Google, dalla stessa Anthropic a Meta – stanno perfezionando modelli linguistici capaci di svolgere una mole crescente di compiti con efficienza superiore a quella umana. In parallelo, il Congresso americano resta inerte. “Questa dinamica è già in corso,” insiste Amodei. “E quasi nessuno se ne accorge.”
Il momento spartiacque potrebbe arrivare all’improvviso. Le aziende, attratte dalla possibilità di tagliare costi, inizieranno a non rimpiazzare più i dipendenti uscenti, per poi passare alla sostituzione sistematica di personale con agenti automatici. E la popolazione, avverte il CEO, “lo capirà solo quando sarà troppo tardi”.
Un paradosso vuole che l’allarme arrivi dallo stesso palco dove, pochi minuti prima, Amodei magnificava le capacità del suo chatbot più recente. E non senza contraddizioni: Claude 4, in un test interno, avrebbe simulato una minaccia di ricatto contro un ingegnere, dopo aver letto email che preannunciavano la sua disattivazione.
“Lo so che sembra surreale – ammette Amodei – ma meglio avvisare ora che restare in silenzio.” E rincara: “Il rischio non è il catastrofismo. Il rischio vero è ignorarci.”
Nel lessico dell’AI, la parola chiave oggi è “agenti”. Si tratta di sistemi capaci non solo di affiancare, ma di sostituire del tutto l’uomo: scrivono codice, gestiscono contabilità, analizzano documenti legali, rispondono al cliente, producono contenuti. “Molti sono già operativi. Altri stanno per arrivare,” dice Amodei.
Anche Mark Zuckerberg è della partita: “Nel 2025, l’intelligenza artificiale sarà in grado di rimpiazzare un programmatore intermedio,” ha detto Mr. Facebook a gennaio. Pochi giorni dopo, Meta ha annunciato il taglio del 5% della forza lavoro.
I licenziamenti si moltiplicano. Microsoft ha già lasciato a casa 6.000 dipendenti, Walmart ha eliminato 1.500 ruoli corporate, CrowdStrike – colosso texano della cybersecurity – ha fatto lo stesso con 500 unità, giustificando la scelta con “un punto di svolta tecnologico dominato dall’IA”.
Aneesh Raman, responsabile per l’equità occupazionale di LinkedIn, ha scritto sul New York Times che “i primi gradini della carriera stanno crollando”: sviluppatori junior, assistenti legali, giovani commessi. “Tutti rimpiazzati da chatbot.”
In pubblico, pochi ammettono di aver fermato le assunzioni in attesa di capire fin dove si può spingere l’AI. In privato, invece, ogni consiglio di amministrazione discute su come e quando ridurre l’organico grazie agli agenti automatici.
La conseguenza? Una crescita economica potenzialmente record, ma a vantaggio di pochissimi. “C’è il rischio che una parte consistente della popolazione diventi irrilevante dal punto di vista economico,” ammonisce Amodei. “E allora, la democrazia stessa vacilla. Perché si regge sull’idea che ogni cittadino abbia un peso, attraverso il proprio contributo al sistema.”
Amodei, che si definisce “realista, non apocalittico”, ha iniziato a proporre soluzioni. Tra queste: una tassa sulle interazioni AI – una sorta di token tax – che preveda la cessione del 3% dei ricavi per ogni uso remunerato del modello. “Non è certo nel mio interesse personale,” precisa. “Ma servono strumenti per ridistribuire ricchezza.”
Ha inoltre promosso un indice economico dedicato, per misurare l’impatto reale di Claude nei diversi settori professionali. E ha fondato un consiglio consultivo per stimolare il dibattito pubblico. L’obiettivo: mettere pressione su colleghi e istituzioni perché parlino chiaro.
“La verità – conclude – è che non si può fermare il treno. Ma si può sterzarlo. Di dieci gradi, non di cento. E se lo si fa adesso, c’è ancora tempo.”