Un nuovo fronte di instabilità si apre in Medio Oriente e i mercati reagiscono immediatamente. Secondo l’emittente televisiva, CNN, Israele starebbe pianificando un attacco contro le strutture nucleari iraniane, sulla base di informazioni raccolte dall’intelligence statunitense. La notizia ha scatenato forte tensioni che hanno investito il mercato del petrolio, già provato da settimane di incertezza.
Il solo timore di un’azione militare è bastato a far balzare il prezzo del greggio: il Brent, uno dei principali tipi di carburanti fossili usati come riferimento nei mercati internazionali, ha superato la soglia dei 66 dollari al barile, mentre il WTI ha registrato un’impennata fino al +3,5%, prima di rallentare leggermente. Fonti anonime citate dalla rete americana sostengono che non sia ancora stata presa una decisione definitiva a Tel Aviv, ma i preparativi in corso fanno temere un’escalation imminente.
L’eventuale attacco israeliano rischia di far deragliare i già fragili negoziati sul nucleare tra Iran e Stati Uniti, compromettendo la possibilità di un accordo che consentirebbe il ritorno sul mercato di maggiori quantità di petrolio iraniano. Una minaccia concreta per la stabilità dell’area, da cui proviene circa un terzo della produzione globale di ”oro nero”.
Robert Rennie, responsabile della ricerca sulle materie prime di Westpac Banking Corp, una delle principali banche australiane con sede a Sydney, sostiene che la semplice mobilitazione di Israele evidenzia l’alto livello di rischio legato ai colloqui con Teheran. A suo avviso, il combustibile continuerà a mantenere un premio di rischio finché le trattative resteranno ferme e lo scenario rimarrà incerto.
Anche i mercati valutari hanno mostrato segnali di tensione, con temporanei rialzi di valute rifugio come franco svizzero e yen giapponese, salvo poi ridimensionarsi. Le autorità israeliane e statunitensi non hanno rilasciato commenti ufficiali, mentre l’ambasciata di Israele a Washington si è limitata a un secco “no comment”.
Da tempo lo Stato Ebraico valuta l’ipotesi di colpire il programma nucleare iraniano, ma restano dubbi sull’efficacia dell’operazione, considerando che molti impianti sarebbero protetti da sistemi in grado di resistere a qualsiasi offensiva convenzionale. Lo stesso presidente Biden, in passato, aveva invitato alla cautela di fronte al rischio di ulteriori tensioni.
Nel frattempo, le prospettive sul mercato restano incerte. Da un lato, l’OPEC, il cartello internazionale formato da paesi produttori di greggio e i suoi alleati, stanno reimmettendo barili sul mercato; dall’altro, la produzione di shale oil statunitense potrebbe aumentare, ma solo se i prezzi resteranno alti. Secondo il CEO di ConocoPhillips, una delle più grandi compagnie petrolifere indipendenti al mondo, difficilmente ci sarà espansione se il carburante scenderà sotto i 50 dollari al barile.
L’Iran, intanto continua a esportare il combustibile nonostante le sanzioni. Goldman Sachs una delle maggiori e influenti banche d’investimento, stima che Teheran abbia aumentato l’offerta di circa un milione di barili al giorno negli ultimi due anni. Samantha Dart, analista di Goldman Sachs, sostiene che se queste forniture venissero bloccate da un eventuale conflitto, i prezzi del petrolio potrebbero salire fino a 8 dollari al barile in più.
Mentre le diplomazie faticano a mantenere aperti i canali di dialogo, i mercati hanno già emesso il loro verdetto: l’instabilità persiste, e il prezzo del petrolio continuerà a muoversi seguendo le tensioni mediorientali.