Donald Trump a muso duro contro il governatore della Federal Reserve Jerome Powell. “Non è mai troppo presto per mandarlo”, ha scritto giovedì il presidente degli Stati Uniti sul suo social network Truth Social, tornando a premere sulla Federal Reserve perché abbassi i tassi d’interesse.
L’affondo di Trump arriva a poche ore di distanza da un intervento del governatore della banca centrale USA all’Economic Club di Chicago, dove quest’ultimo ha ribadito che l’autonomia della Fed “è largamente compresa e sostenuta a Washington e al Congresso, dove conta davvero”. Parole che hanno strappato un fragoroso applauso alla platea di alti dirigenti economici presenti in sala.
Trump ha accusato Powell di essere stato “sempre in ritardo e nel torto” e ha liquidato l’intervento del giorno prima come “l’ennesimo, tipico disastro totale!”. Ha poi criticato il governatore per non aver seguito l’esempio della Banca Centrale Europea, che giovedì ha tagliato il benchmark rate di altri 25 punti base e portato al 2,40%-,2,25% (contro il 4,25%-4.5% della Fed). “Avrebbe dovuto farlo molto prima — ha scritto — ma deve farlo certamente adesso”.
I toni usati non sorprendono chi segue da vicino il rapporto teso tra i due. Già in passato, Trump aveva minacciato di silurare Powell — una possibilità oggi all’esame della Corte Suprema, che sta valutando se il presidente possa rimuovere membri di enti indipendenti prima della scadenza del mandato. Powell, dal canto suo, ha dichiarato che la Fed sta seguendo la causa “con attenzione”, ma non ritiene che un eventuale verdetto possa applicarsi alla banca centrale. Il suo mandato scade a maggio 2026.
Dopo aver ridotto i tassi nel corso del 2024, portandoli all’attuale intervallo tra il 4,25% e il 4,5%, la Fed ha scelto da dicembre di mantenere invariata la propria posizione. Il vero nodo resta l’incertezza generata dalle politiche tariffarie dell’amministrazione. Mercoledì, Powell ha lanciato un monito sui dazi voluti da Trump, che rischiano di allontanare inflazione e occupazione dagli obiettivi fissati dal Congresso, creando uno scenario definito da diversi membri del board come uno “shock economico” privo di precedenti storici chiari.
Le preoccupazioni sono doppie. Da un lato, un’impennata dei prezzi; dall’altro, un contraccolpo psicologico che potrebbe pesare sull’occupazione. Alcuni esponenti della Fed si dicono pronti a tagli rapidi per sostenere il mercato del lavoro, mentre altri temono che le scelte dell’amministrazione, giudicate “erratiche”, possano far impennare l’inflazione e costringere a manovre opposte.
È proprio la tensione tra il rischio di una recessione e quello di un’inflazione fuori controllo a distinguere l’attuale posizione della Federal Reserve da quella delle sue controparti internazionali. Se nel 2024 la banca centrale statunitense si era mossa in sincronia con altre autorità monetarie, tagliando i tassi di un punto complessivo in tre tornate successive, da mesi la situazione è in stallo.
Il rallentamento nel calo dell’inflazione, osservato in autunno, aveva convinto i policymaker a congelare ulteriori interventi, in attesa di segnali più chiari. Ma l’arrivo di Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio ha complicato il quadro, contribuendo a un aumento dell’incertezza anche all’estero, dove altri Paesi hanno continuato a percorrere la via del taglio dei tassi, confidando in una traiettoria più definita.