Sono passati appena un paio di mesi dal drammatico crollo del rublo. Con l’invasione russa dell’Ucraina appena iniziata, le durissime sanzioni occidentali avevano fatto precipitare la valuta russa al suo valore più basso di sempre. Alla vigilia della “operazione speciale” partita il 24 febbraio, un rublo veniva scambiato con 12 cents di dollaro. A inizio marzo, di centesimi ne bastava uno (anche meno in realtà).
Washington e Bruxelles avevano insomma imbandito la tavola per un default dei conti pubblici russi. Eppure, da allora la moneta russa si è resa protagonista di una risalita strepitosa (+150%), registrando un apprezzamento nello scambio col dollaro persino rispetto al periodo pre-guerra (+16%). Il 24 maggio, per un dollaro servivano 18 centesimi, 6 in più rispetto al 23 febbraio.
Un recupero strabiliante che ha reso il rublo la seconda moneta più in crescita nel 2022, superata solo dal real brasiliano.
Quello russo è uno dei pochi casi storici in cui la valuta di un Paese in guerra e sotto sanzioni non solo non si deprezza, ma incrementa addirittura di valore. Solitamente, gli investitori internazionali fuggono a gambe levate portando il loro denaro altrove, in cerca di approdi più sicuri e remunerativi.
Com’è potuto succedere? La risposta sta tutta nelle misure adottate in tandem dalla Banca centrale della governatrice Elvira Nabiullina e dal ministero delle Finanze per evitare le suddette fughe di capitali. La tattica delle autorità russe è consistita nell’obbligare cittadini e imprese a mantenere i propri conti in rubli, aumentando artificialmente la domanda di valuta per farne salire il valore.
Nel frattempo, i venti di guerra hanno provocato un’impennata nei prezzi dell’energia, di cui Mosca è una delle principali esportatrici. Sfruttando tale posizione di vantaggio, il Cremlino ha intimato ai Paesi occidentali dipendenti da gas e petrolio russi di non saldare più il conto in euro o dollari, ma appunto in rubli – per farne ulteriormente salire il valore.

Solo ad aprile l’export di materie prime ha fruttato alla Russia un guadagno di circa 20 miliardi di dollari al mese, il che fa il paio con il crollo verticale delle importazioni dall’Occidente (a causa delle sanzioni). Risultato: il surplus commerciale russo, ossia la differenza tra esportazioni (entrate) e importazioni (spese), ha fatto registrare ad aprile un avanzo di 37 miliardi di dollari nelle casse di Mosca.
Come se non bastasse, la Banca centrale ha aumentato i tassi di interesse al 20% e imposto un limite ai prelievi di valuta estera, oltre a vietare alle banche russe di vendere dollari ed euro ai correntisti. Tra le altre misure emergenziali, anche l’obbligo rivolto alle aziende russe di convertire in rubli l’80% dei loro ricavi in valuta estera.
Per quanto rivelatosi provvidenziale nell’immediato, l’apprezzamento “artificiale” del rublo non è però sostenibile nel lungo periodo. Una moneta forte agevola l’importazioni di prodotti esteri, che diventano meno costosi per i consumatori russi, e limita al contempo le esportazioni, che diventano più care per gli acquirenti esteri.
Tuttavia, le sanzioni occidentali hanno di fatto congelato l’arrivo di merci sul mercato russo, col risultato che un russo dovrà comprare i (più costosi) beni prodotti internamente. Si aggiunga che in Russia l’inflazione è al 17,8%, le previsioni del PIL a oltre -10%, e che il reddito reale medio è diminuito di almeno un punto percentuale rispetto allo scorso anno. Sommando i fattori, si ottiene un quadro molto meno confortante rispetto all’andamento nominale del rublo.

Con la stessa velocità con cui avevano reagito all’indomani della pioggia di sanzioni occidentali, la Banca centrale ha perciò tagliato i tassi d’interesse all’11% e allentato i vincoli di capitale, consentendo alle imprese di mantenere il 50% delle entrate in valuta estera.
Mosca si trova però in una situazione assai poco invidiabile. Da un lato, continuare con la politica di salvaguardia del rublo rischia di rendere la valuta troppo forte, rallentando un’economia già a picco. Dall’altro, allentare troppo le maglie potrebbe far avverare lo spauracchio di una massiccia fuga di capitali. E mettere, questa volta sì, definitivamente KO le casse del Cremlino.