I prezzi al consumo sono aumentati al ritmo più veloce degli ultimi quarant’anni e l’inflazione è stata più acuta per i beni di prima necessità come cibo, alloggio e trasporti. Oggi il Dipartimento del Lavoro ha reso noto che i prezzi nel mese di febbraio sono saliti dello 0,8% rispetto a quelli di gennaio e del 7,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Secondo il Dipartimento del lavoro, il costo della spesa domestica è aumentato dell’8,6% negli ultimi 12 mesi, il più grande aumento dall’aprile 1981.
La Federal Reserve dovrebbe iniziare ad aumentare i tassi di interesse la prossima settimana nel tentativo di domare l’inflazione.
Il prezzo della benzina è aumentato del 38% nell’ultimo anno. La statistica non include i recenti rincari dei carburanti dovuti all’invasione russa dell’Ucraina, che ha spinto i prezzi a più di $ 4 al gallone, il più alto dal 2008. I costi degli affitti sono aumentati del 4,7% nell’ultimo anno, il massimo da maggio 1991. Sebbene tale aumento percentuale sia stato inferiore rispetto ad altre categorie. I costi degli alloggi rappresentano da solo oltre un terzo del budget familiare medio.

(pxHere)
L’inflazione ha iniziato a emergere nella primavera del 2021 quando l’economia è uscita dal suo letargo pandemico. I consumatori avevano una domanda repressa dopo essere rimasti a casa per mesi a causa del Covid-19. Le famiglie erano piene di contanti che non avevano speso per l’intrattenimento e i viaggi e avevano risparmi sia per gli incentivi che dagli assegni di disoccupazione emessi dal governo federale per sostenere l’economia. Con tanti contanti a disposizione i consumatori hanno cominciato a spendere massicciamente e l’alta domanda ha stressato le linee di approvvigionamento già ridotte a causa del virus. Sono seguiti prezzi più alti, sebbene inizialmente concentrati in poche categorie. Molti economisti pensavano che il fenomeno sarebbe stato temporaneo. Dalle ferree leggi dell’’economia alle interpretazioni politiche delle cause il passo è breve.
Ora i repubblicani cercano di incolpare le decisioni energetiche e ambientali di Biden per gli aumenti dei costi, anche se gli stessi repubblicani sono stati ampiamente favorevoli al divieto delle importazioni russe. Benzina inclusa.
Il “whip” della minoranza della Camera Steve Scalise e la presidente della Conferenza repubblicana della Camera, Elise Stefanik hanno accusato Biden di organizzare una “guerra all’energia americana”. Il Comitato Nazionale Repubblicano ha attaccato Biden per aver raddoppiato la “sua agenda verde radicale”. Accuse che, in realtà, non hanno per ora nessuna incidenza sull’aumento dei prezzi.
Le critiche mosse a Biden si basano su tre fattori: 1) la moratoria sui nuovi contratti di trivellazione su terreni federali, dimenticando che Biden ha dato il via libera a circa 3.500 permessi di perforazione di petrolio e gas nel primo anno in carica. La cifra è di circa il 25% superiore a quella del primo anno in carica dell’ex presidente Trump. 2) L’arresto dell’oleodotto Keystone XL, oggetto di accesi dibattiti sia per i danni ambientali che per la scarsa qualità del greggio canadese che sarebbe passato. La Pipeline comunque avrebbe dovuto entrare in funzione solo nel 2023. 3) La generale ostilità ideologica nei confronti dei combustibili fossili da parte dei democratici.
“Odio il termine politica energetica in generale perché il settore energetico statunitense è un mercato, non una politica”, ha affermato James Bushnell, professore di economia presso l’Università della California, a The Hill, il ben informato quotidiano online. “Democratici e repubblicani amano parlare come se il presidente o il Congresso potessero tirare una leva e produrre più o meno petrolio, o più o meno gas serra. La legge di mercato è l’unico motore di tutto ciò che accade nel settore energetico statunitense”.

Con i prezzi alle pompe di benzina saliti alle stelle si è anche aperto il dibattito se gli Stati Uniti debbano limitare o vietare completamente le esportazioni di petrolio prodotto in America. Una domanda che non segue linee ideologiche. Alcuni democratici alla sinistra del partito, come il rappresentante Ro Khanna, hanno precedentemente espresso sostegno all’idea, mentre sta diventando anche un punto di discussione tra le tendenze più populiste dei media conservatori. Tra i democratici, il rappresentante Val Demings, che quest’anno sta cercando un seggio al Senato per la Florida, martedì ha chiesto un’azione per “limitare immediatamente l’esportazione di benzina di fabbricazione americana che è attualmente venduta sui mercati esteri”. Demings ha aggiunto: “La benzina prodotta in America dovrebbe essere consumata in America, abbattendo immediatamente i costi per le famiglie che lavorano”.
Ma questo tipo di opinioni ricevono una forte opposizione da parte dei politici moderati e dell’industria energetica sostenendo che questa misura potrebbe rivelarsi controproducente distorcendo il mercato globale e aggravando l’attuale situazione. “Se blocchiamo le esportazioni si creerà il caos con i nostri partner commerciali, che sono anche i nostri alleati. Perché dovremmo farlo? Sarebbe un passo falso che ci ferirebbe e ferirebbe ancora di più i nostri alleati”, ha affermato Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics.
È probabile che ciò sia vero per la benzina e altre categorie colpite negativamente dalla guerra in Ucraina. Ma c’è il pericolo che la catena di approvvigionamento “potrebbe essere aggravata dalle conseguenze economiche prolungate” del conflitto, secondo Jason Pride, chief investment officer della Glenmede Trust Company con sede a Filadelfia.
Per ora si stima che i prezzi aumenteranno a un tasso annuo più modesto dal 4% al 5% entro la fine del 2022.

I sondaggi, per ora, mostrano che gli elettori affermano di essere disposti a pagare un prezzo maggiore per la benzina per punire Putin. Un sondaggio del quartier generale di NewsNation/Decision Desk pubblicato mercoledì ha rilevato che il 65% degli americani è favorevole alle sanzioni contro la Russia, anche se tali sanzioni hanno aumentato il prezzo dei carburanti.