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July 4, 2020
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Alitalia, un’azienda troppo italiana per fallire? L’alibi dell’italianità non basta più

Siamo davvero sicuri che il nostro Paese abbia bisogno di Alitalia e, soprattutto, di “questa” Alitalia?

Andrea PedicinibyAndrea Pedicini
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Alitalia da Roma a Washington: un volo che durerà?

Time: 6 mins read

“Alitalia: Too Italian to fail”: così titolava qualche settimana fa il quotidiano americano POLITICO. Poche parole, azzeccatissime, per riassumere un’odissea che dura da decenni, e che ha fatto di Alitalia uno dei buchi finanziari di Stato più gravi della storia repubblicana. A scatenarne l’interesse, ovviamente, la recente decisione del governo italiano di riportare la compagnia di bandiera sotto il controllo pubblico, mediante la costituzione di un nuovo veicolo societario interamente in capo al Ministero dell’Economia.

L’operazione, per la quale il governo ha già stanziato ben 3 miliardi di euro, è stata giustificata in virtù dell’eccezionalità del contesto socioeconomico creato dalla pandemia, in Italia e all’estero, che non renderebbe possibile per Alitalia continuare ad operare autonomamente. 

È però doveroso ricordare che Alitalia si trova in amministrazione straordinaria da oltre tre anni (una fase, questa, costata a sua volta alle casse dello Stato oltre 1 miliardo e mezzo di euro), e che  alla fine del 2019 era arrivata a perdere circa 2 milioni al giorno. Insomma, pandemia o meno, Alitalia era moribonda da un pezzo.

Risulta quindi difficile convincersi della bontà di un’operazione che sembra nascere su presupposti non molto diversi da quelli del passato, semmai in un contesto globale estremamente più incerto e complesso, e soprattutto nella totale assenza di un piano strategico-industriale chiaro e convincente, ammesso poi che ne esista davvero uno, vista l’ampiezza e la profondità delle lacune competitive e gestionali che affliggono Alitalia.

Troppo grande, infatti, per competere sulle tratte a breve e media percorrenza, dove a farla da padrone sono dai primi anni 2000 le compagnie low-cost, ma allo stesso tempo troppo piccola per competere adeguatamente con i principali colossi europei anche sulle tratte a lunga percorrenza, tra l’altro molto più remunerative.

Quando l’Alitalia portava anche il papa in America…

Questo schema riflette una serie di errori strategico-industriali accumulati soprattutto a partire dal 2008, anno in cui Silvio Berlusconi, alla vigilia delle elezioni politiche, contribuì a far saltare il banco della trattativa con Air France-KLM, interessata a rilevare una quota maggioritaria di Alitalia (di cui già deteneva il 25%), facendosi carico dell’intera posizione debitoria, per affidarne invece il “rilancio”, ad elezioni vinte, alla cordata dei “capitani coraggiosi” guidata da Roberto Colaninno (i quali si riveleranno, in realtà, non solo ben poco “coraggiosi”, ma anche molto incapaci).

Già allora abbondarono le critiche, ma a 12 anni di distanza, e all’alba dell’ennesimo salvataggio, risulta decisamente chiaro che quello fu l’errore fatale da cui Alitalia non si sarebbe più risollevata: non solo i “capitani coraggiosi” chiesero ed ottennero di rilevare esclusivamente la parte “sana” di Alitalia, che venne così scissa dalla “bad company” (di cui si fece invece carico lo Stato, sborsando altri 3 miliardi di euro, tra debiti, esuberi, ecc..), ma impostarono una strategia industriale suicida per il futuro della compagnia.

Proprio nella fase in cui, infatti, la supremazia dei vettori low-cost diventava quasi insormontabile, e le grandi compagnie europee puntavano con forza sulle rotte intercontinentali (riuscendo anche ad offrire tariffe più vantaggiose rispetto al passato nei collegamenti con l’America e l’Oriente), l’Alitalia dei “capitani coraggiosi” decideva invece di ridurre drasticamente le destinazioni intercontinentali per puntare sulle rotte a breve percorrenza (in primis la Roma-Linate).

Così facendo, Alitalia finì per scontrarsi da un lato con la concorrenza delle compagnie low-cost, e dall’altro con Trenitalia, che proprio nel 2008 introduceva l’alta velocità, offrendo così un’alternativa spesso più comoda e a buon mercato rispetto all’aereo.

Risultato: le quote di mercato di Alitalia, dal 2008 in poi, sono colate a picco, così come i conti, e la sua posizione competitiva si è definitivamente disintegrata.

Avendo quindi chiarito che le occasioni per rilanciare Alitalia potrebbero essere già belle che passate, resta in piedi ancora una domanda: siamo davvero sicuri che il nostro Paese abbia bisogno di Alitalia e, soprattutto, di “questa” Alitalia?

Per troppo tempo, infatti, ci si è colpevolmente nascosti dietro l’alibi dell’italianità della compagnia di bandiera, asserendo che essa svolge un ruolo “strategico” nella promozione del turismo del nostro Paese. Peccato però che da anni, ormai, il principale vettore aereo in Italia, sia l’irlandese Ryanair, che ricopre ben il 25% dell’intero mercato, e che nel solo 2019 ha trasportato poco più di 40 milioni di passeggeri (contro i 22 di Alitalia). 

Va anche ricordato che oggi, tra le 10 compagnie maggiormente presenti nel nostro paese, 9 su 10 sono straniere (la decima è appunto Alitalia): tutte ben contente di trasportare turisti nel Belpaese, pur non essendo italiane.

Infine, mentre negli ultimi anni le quote di mercato di Alitalia si sono, appunto, significativamente ridotte, il numero dei turisti in Italia è costantemente aumentato, mettendo quindi ancora più in discussione la correlazione tra il ruolo di Alitalia e il suo impatto sui flussi turistici del nostro paese.

Impuntarsi nel mantenere in piedi una compagnia come Alitalia, nel nome dell’italianità, finisce così per avere un effetto distorsivo, trasformandola nel fine (“c’è bisogno di una compagnia italiana, costi quel costi”) anziché nel mezzo (“c’è bisogno di una compagnia italiana, solo se questa genera davvero un beneficio per il paese”).

Semmai, ciò di cui il nostro Paese avrebbe veramente bisogno, per il rilancio e il sostegno del nostro turismo, e più in generale della nostra economia, sarebbe la presenza di più compagnie aeree in sana competizione tra loro, capaci di far volare persone e merci in maniera più efficace ed efficiente.

E se proprio si volesse intervenire su un aspetto, quello sì, “italiano”, varrebbe invece la pena razionalizzare il tessuto aereoportuale nazionale, non sempre all’altezza di un paese come l’Italia che ambisce, più che legittimamente, a vivere molto anche di turismo: Fiumicino e Malpensa, i due principali aeroporti italiani, potrebbero essere più grandi e meglio collegati, ambendo così al ruolo di hub intercontinentali. Altri aeroporti, decisamente strategici per la promozione del nostro turismo, si pensi ad esempio a Firenze, Napoli e Palermo, restano oggi troppo piccoli e mal collegati. E infine, c’è una miriade di aeroporti di piccolissime dimensioni che gravano sulle casse dello Stato per la loro fisiologica inefficienza (data appunto dalle loro ridotte dimensioni), di cui si avvantaggiano solo le compagnie low-cost, che infatti, e in maniera piuttosto paradossale, vengono addirittura sovvenzionate per il loro utilizzo.

Il timore è allora che la decisione di spendersi, per l’ennesima volta, nel salvataggio di Alitalia (alle spalle dei contribuenti), confermi da un lato la convenienza politica dell’operazione nel breve termine, e dall’altro l’assenza assoluta di una strategia più ampia per il rilancio, in generale, del nostro paese.

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Andrea Pedicini

Andrea Pedicini

Nato a Pordenone nel 1982, vive a New York dal 2010. Laureato presso la facoltà di Economia dell’Università Ca’Foscari di Venezia, inizia la sua carriera professionale in KPMG, multinazionale della consulenza e della revisione contabile. Dopo una prima esperienza a San Diego, in California, si sposta a New York per diventare broker immobiliare. Oggi lavora per il gruppo Corcoran, tra le principali realtà d’intermediazione negli Stati Uniti, occupandosi prevalentemente di investimenti. Da sempre appassionato di economia e politica, segue dalla Grande Mela le vicende italiane. Sposato con una ragazza americana, è papà di Ludovic, nato a New York nel 2015. Born and raised in Italy, Andrea moved to New York in 2010. He holds a Bachelor Degree in Business and Management and a Master Degree Magna Cum Laude in Marketing and Communication at Ca’Foscari University, Venice (Italy). He started his career at KPMG in 2006, a global audit and advisory firm, entering real estate three years later as a business development manager for a boutique brokerage company in New York. In 2016 he joined The Corcoran Group, a leading firm in residential real estate, where he created a niche for himself as the go-to broker for European high-net-worth individuals looking to invest in New York City's real estate. Always passionate about economics and politics, he’s been a contributor for La Voce di New York since 2020.

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