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April 14, 2018
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Criptovalute: non è facile fidarsi di ciò che non c’è (ma neppure dei governi…)

Bitcoin, la moneta fondata sulla fiducia scambiale che non dipende dalle promesse della politica. Ma ci si può fidare davvero?

James HansenbyJames Hansen
Criptovalute: non è facile fidarsi di ciò che non c’è (ma neppure dei governi…)

Bitcoin.

Time: 2 mins read

Fidarsi… — Fidarsi di ciò che non c’è non è facile. C’è confusione su cosa sono le “criptovalute” come Bitcoin e altre. Non sarebbero “reali”, ma già i biglietti di banca convenzionali non lo sono, senza nemmeno il valore intrinseco del metallo degli spiccioli. Perlopiù, i nostri soldi attuali non sono che una rappresentazione di valore mantenuta da bruffoletti elettronici sugli hard disk di una banca: bits and bytes. I soldi sono, in essenza, una forma di fiducia scambiabile. Hanno solo il valore che noi e specialmente gli altri — gli diamo. Se non c’è fiducia, non valgono, come i dollari dello Zimbabwe che alla fine, nel 2009, uscivano anche in tagli da $100 trilioni, il prezzo di un uovo. Quando governi e istituzioni un po’ ovunque non paiono più tanto affidabili, non sorprende la fuga verso strumenti diversi che forse possano valere nel tempo.

Il valore delle nuove valute si basa su una sorta di scarsità matematica che non dipende dalle promesse labili della politica. Leggere sui giornali del Governo del Venezuela e del suo fantomatico petro, una nuova criptovaluta “garantita” dal petrolio nel sottosuolo del Paese, significa solo che o i venezuelani o i cronisti non hanno ben capito di che si tratti. Le criptovalute avanzano anche perché le garanzie dei governi non sono poi tanto affidabili, come nel caso venezuelano. Il Paese non riesce a estrarre il greggio per se stesso, figuriamoci per l’investitore che chiede di “rientrare”.

Una parte dello scopo del Bitcoin è che non ha bisogno di garanti. In un senso, si “autogarantisce” con la sua stessa esistenza. È facilmente portatile, si “sposta” con una semplice email. I governi temono che possa essere utilizzato per le attività criminali o per l’evasione fiscale. Hanno perfettamente ragione. Una volta era la magia di un metallo prezioso, l’oro, a garantire il valore, anche se gli Stati non di rado “l’annacquavano” con altre leghe. Bitcoin, matematicamente, non può essere svalutato “d’imperio” solo perché uno Stato preferisce ripagare i suoi debiti con una valuta fatta valere di meno.

Quando si legge che una criptovaluta “vale” qualcosa di stratosferico, non è sempre tutta la storia. Ogni transazione valutaria ha due lati: uno di vendita e l’altro d’acquisto. Il cambio è fissato dal rapporto tra i due — così, quando il Bitcoin si cambia a 10mila dollari, non consegue necessariamente che valga molto. Può anche essere che l’altra valuta, offerta dall’acquirente, valga poco, almeno per acquistare qualcosa di scarso e di pregiato: una nuova valuta incorruttibile come l’oro, anonima e lieve come il vento…

La sola idea fa venire brividi alle finanze pubbliche, fin qui imperanti. L’attacco degli Stati alle nuove valute è appena iniziato, ma è forse già tardi. Il punto debole nella catena che riconosce valore alle criptovalute è il momento quando devono diventare una moneta convenzionale per pagare il conto al ristorante o comprare un giornale. I governi presto vorranno vietare alle banche di trattarle, giustificando l’azione con la lotta all’evasione o al terrorismo, ma finché ci sarà un sola nazione al mondo disposta a permetterne l’esistenza—per le ricchezze che portano—è difficile che escano vincenti.

La “Legge di Gresham”, teorizzata dal banchiere inglese Thomas Gresham nel XVI secolo e molto amata dagli economisti, afferma l’assunto per cui “la moneta cattiva scaccia quella buona”. Trascura però di definire in termini moderni esattamente qual’è la moneta cattiva e qual’è invece quella buona.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli.

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